
di ANDREA FILLORAMO
Ricevo e trasmetto un messaggio anonimo.
“Con la presente intendo intervenire all’email inviatati in cui c’era scritto: “ La vicenda di don Sinitò mi ha fatto molto riflettere………………….”: “Non è vero che noi abbiamo abbandonato un nostro confratello, l’abbiamo sempre accompagnato con la nostra preghiera. Se i giornali avessero taciuto sulla vicenda, l’arcivescovo sarebbe venuto incontro, come sempre ha fatto ad un prete in difficoltà e poi: dov’è adesso Salvatore Sinitò? Nessuno lo sa e quindi non possiamo aiutarlo”.
Il messaggio, ricevuto il 04/03/2015, alle ore 13,46, sul mio cellulare da “sconosciuto”, mi irrita e mi indispettisce. Esso mi dà l’immagine di un “mondo”, che fortunatamente non è stato e non è il mio, né appartiene a tanti il cui parlare è: “si…si…no…no”. Noto, con molto dispiacere, che esso è di “fattura” clericale, cioè riguarda dei preti, che, nascondendosi sotto la maschera dell’anonimato e, quindi dell’ipocrisia, non si rendono conto della loro “clausura” mentale, dell’”acriticità”, della “doppiezza”, dell’l’”ambiguità”, della “simulazione”. Essi, in barba alla carità che predicano, diventano addirittura incapaci di essere almeno un pò caritatevoli. Il messaggio da me ricevuto, pur nella brevità delle righe, denuncia un male sotterraneo e oscuro e rende palesi la falsa “ubbidienza”, il malinteso “senso della preghiera”, il “capovolgimento delle verità”, le insopportabili “blandizie”, l’ipocrita “culto della personalità“ nei confronti del “missus Domini”, dal quale sanno che dipendono il proprio presente e il proprio futuro. Ritengo che questo sia il più pericoloso “virus” che attacca, aggredisce e distrugge molti preti e con il quale – ne sono certo – l’arcivescovo La Piana, prima o dopo, deve fare i conti e al quale opporre, se non già l’ha fatto, le necessarie terapie. Nel messaggio l’autore, inoltre, chiede, retoricamente, come se fosse al “Chi l’ha visto?”: dov’è don Salvatore Sinitò”. Rispondo subito: io non lo so e non posso saperlo. Penso che questa domanda e non in modo retorico, la dovrebbe egli rivolgere allo stesso arcivescovo; essendo, infatti, don Sinitò incardinato nella arcidiocesi di Messina, Lipari e Santa Lucia del Mela, chi più di Mons. Calogero La Piana è informato di dove si trova l’ex arciprete di Taormina e quale è o sarà il suo destino. L’istituto dell’incardinazione di in prete in una determinata diocesi, infatti, non è soltanto un fatto formale, ma, dopo il rinnovamento ecclesiologico del Concilio Vaticano II, il presbitero incardinato, è da considerare non una figura individuale, ma un soggetto spiccatamente comunitario, appartenente, cioè, a tutto il presbiterio diocesano, che, assieme al vescovo, si fa carico del suo benessere psicofisico. Il vescovo sa, più e meglio di me queste cose. Sa che può compiere la sua missione solo attraverso i suoi presbiteri e i presbiteri sanno che operano in modo ecclesiale solo se sono in comunione con il loro vescovo. Il vescovo deve avere un amore senza riserve per i suoi preti, li deve ascoltare e rispettare, il tutto per far sì che essi possano svolgere il loro ministero in maniera positiva. D’altra parte i sacerdoti devono avere fiducia nel vescovo, capire che egli sceglie ed agisce non per potere, non per sentimenti, né per simpatia. Se un vescovo non ama senza riserva i suoi preti e i preti non hanno fiducia nel loro vescovo, l’uno e gli altri tradiscono il senso della loro missione.