Ab episcopo nostro Calogero, libera nos, Domine

di ANDREA FILLORAMO

Trasmetto un’email, inviatami da un prete messinese che io conosco ma che mi chiede di non rivelare il nome:
Carissimo, sono…………… Ho dovuto faticare per avere il tuo indirizzo di posta elettronica. Ti scrivo per ringraziarti anche a nome di chi non ha nome dei tuoi articoli sulla situazione che stiamo vivendo nella diocesi di Messina, dove c’è un vescovo, piccolo non solo di statura, che non si rende conto che, al di là di quelli da te chiamati “leccapiedi”, alla maggioranza dei preti non resta altro che raccomandarsi a Dio supplicandolo: “ab episcopo nostro Calogero, libera nos, Domine”. Ci sarà, come tu dici, il “cielo nuovo e la terra nuova”? Speriamo. Ti prego di pubblicare, se vuoi, questa lettera ma di non rivelare il mio nome. Ho una certa età e…………… Firmato……………

Non intendo commentare questa lettera, che, a mio parere, al di là del suo contenuto, sul quale più volte ci siamo soffermati, diventando talvolta anche sgraditi ai lettori, si conclude con un “codicillo”, senz’altro comprensibile, ma inaccettabile da chi non nasconde la propria identità e coraggiosamente, senza timore, affronta serenamente ogni situazione. Mi permetto rammentare a chi mi scrive e mi chiede di non rivelare il suo nome, (e mi perdoni!) il personaggio di don Abbondio dei Promessi Sposi, che Alessandro Manzoni giustifica con l’espressione, diventata proverbiale: ‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. La frase è efficace, ma non è del tutto giusta. La paura non è una condanna del destino, né una condizione caratteriale. E’ la voglia di non vivere. Tante volte il pauroso non ha timore delle conseguenze del suo eventuale gesto audace, ma solo del cambiamento che questo produrrebbe. ‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha…’ diventa in questi casi una comoda autogiustificazione. Nel romanzo di Manzoni, una ritorsione di don Rodrigo colpirà effettivamente il coraggioso fra’ Cristoforo, che verrà trasferito in un lontano convento. Il pavido don Abbondio, invece, non subirà vendette e potrà tranquillamente continuare le sue letture serali sui libri che parlano di Carneade. E’ questa la verità: il prete non saprebbe gestire una situazione nuova, come un cambio di paese e di parrocchia. Tante volte abbiamo paura del nuovo, mentre crediamo di avere paura di una persona. Tante volte si preferisce l’abitudine all’avventura. Ma la tranquillità è cosa molto diversa dalla felicità, che è conseguenza di alti e bassi e di cambiamenti. L’abitudine è solo attesa della vecchiaia, e, quindi, una anticipazione della morte. Al mittente dell’email inviatami, quindi, dico: “Ti sei forse offeso perché ti ho ritenuto un don Abbondio?” Se è così scusami! Se non è cosi: “alza subito le chiappe!” “convinci i preti che la pensano come te, che mi risulta siano tanti, a recarsi dall’arcivescovo per dirgli tutto quello che avete da dirgli”. Perdete la parrocchia o l’ufficio? Pazienza! Sarete trasferiti? Forse! Sarete presi per fame? Non credo. E’ grande la “vigna del Signore!” E’ certo, però, che dal momento in cui non indosserete più la “maschera”, anche per voi ci sarà “ un cielo nuovo e una terra nuova”. Per concludere, chiedo: “a Messina, come in tutte le diocesi, c’è il Consiglio presbiterale?” Ovviamente la domanda è retorica. Dinnanzi alle “bufere” che si addensano sul cielo della diocesi peloritana, che ancora non ha un vicario generale, che faccia da “filtro” fra l’arcivescovo e i preti, cosa fa il Consiglio presbiterale? Cosa fanno i suoi consiglieri? Forse dormono e lasciano che la situazione deteriori?