Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

di Ettore Sentimentale

All’interno della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”, nella nostra parrocchia si è svolta la sera del 24 u.s. la celebrazione ecumenica della Parola di Dio, imperniata sul tema “Gesù, fonte di acqua viva”, risonanza del 4° cap. del Vangelo di Giovanni.

La suddetta manifestazione fu promossa dai pionieri dell’ecumenismo e ogni anno diventa un’opportunità per incontrarsi, riflettere e collaborare fra le diverse chiese. È una cosa molta bella, ma questa “settimana” provoca in me delle domande radicali, cominciando dal nome: “settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”. Noi cristiani siamo molto diversi, ma per questo siamo forse necessariamente divisi? Apparteniamo sì a chiese molto differenti, ma che c’è di male se continuiamo così? Sono veramente separato nella mia fede da una famiglia ortodossa di Atene o da alcuni amici luterani che vivono in Germania? Mi pongo queste domande perché ho avuto la grazia di stare molte volte a contatto con cristiani di altre confessioni andando periodicamente a Taizé, ove settimanalmente si incontrano migliaia di giovani per vivere una forte esperienza di Cristo nella preghiera, nel dialogo e nella condivisione.

Azzardo una provocazione. Se Dio avesse bisogno che gli chiedessimo altro, non dovremmo chiedergli piuttosto di sentirci uniti pur essendo molto diversi? Non potrebbe essere più opportuno organizzare un incontro di preghiera per la diversità nelle chiese?

Noi cattolici, dopo aver superato certi modi di dire alquanto offensivi, chiamiamo gli altri “fratelli separati”, ma è una formula alquanto infelice. E dire che quando cominciò a circolare questa espressione si disse subito che era alquanto rispettosa nei confronti di coloro che prima venivano trattati con disprezzo. Tuttavia la suddetta formula mi sembra ancora una “contraddizione in termini”, un ossimoro. Il motivo di questa affermazione è semplice: le stesse persone vengono definite “fratelli” e contemporaneamente “separati”. E la cosa più assurda consiste nel ricordare loro che devono ritornare alla chiesa dalla quale si sono allontanati!

Davanti a questo quadro della situazione, si pongono due problemi. Il primo: chi si è separato e da chi? Si separò Costantinopoli da Roma o viceversa? Il secondo: supposto che una chiesa si sia separata dall’altra, chi decide se questa avesse o meno ragioni valide per farlo?

In definitiva: chi deve avvicinarsi a chi, per recuperare la vera unità perduta? Gli ortodossi ai cattolici o viceversa? Gli anglicani alla chiesa latina o viceversa? A questo punto la domanda sorge spontanea: in cosa consiste l’unità? Richiede forse che tutte le chiese abbiano la stessa teologia? Che diano il proprio assenso agli stessi dogmi? Che si sottomettano allo stesso capo?

Se lo chiedessimo a Paolo che affrontò apertamente Pietro e questi non lo “scomunicò”…

Se lo chiedessimo alle “chiese di Giovanni” che rivendicarono sempre la loro libertà rispetto alle “chiese principali” (cioè quelle di Paolo e Pietro)…

Se lo chiedessimo a S. Ireneo di Lione che nel II sec. protestò contro papa Vittorio perché quest’ultimo voleva imporre alle chiese dell’Asia Minore la data romana della celebrazione della Pasqua…

La conclusione non può non essere sincera: non sono le differenze, ma il modo di viverle che spezza l’unità…

Allora la “settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” potrebbe trasformarsi in un periodo in cui le chiese si riuniscono e si riconoscono, celebrando la presenza consolatrice dello Spirito. Lo facciano allargando i margini della comunione e della diversità di forme. Vadano avanti nel dialogo e senza anatemi, lasciandosi trasformare dal mormorio dell’acqua che zampilla nel cuore di ciascuno. Si tratterebbe, in poche parole, di ampliare il segno profetico dell’esperienza ecumenica di Taizé.