La vera e giusta libertà d’informazione è indispensabile all’odierna società per il suo progresso

di ANDREA FILLORAMO

Del “licenziamento” dell’arciprete di Taormina, don Salvatore Sinitò, ritenuto da tanti senza “giusta ragione”, anzi espressione di un “abuso di potere” da parte dell’arcivescovo di Messina e, inoltre, della sua sostituzione con il Vicario generale, si è interessata tanta stampa e nazionale e locale. Varie e diverse sono state le titolazioni degli articoli che oscillavano fra il “gossip “ allorchè facevano riferimento a una presunta e inesistente “amante”, ad accuse esplicite di “arroganza”, di “estorte” dimissioni da parte di Mons. La Piana che, nelle rimozione di un parroco, era costretto dal canone1742 del diritto canonico, che recita: “il Vescovo discuta la cosa con due parroci scelti dal gruppo a ciò stabilmente costituito dal consiglio presbiterale; che se poi ritenga si debba addivenire alla rimozione, indicati per la validità la causa e gli argomenti, convinca paternamente il parroco a rinunziare entro quindici giorni”. Non mancano, in alcuni giornali e nei Siti Internet, per quanto riguarda quella che è stata ritenuta la “forzosa” dimissione di Sinitò, gli accenni alla necessità da parte dell’arcivescovo di trovare una più che dignitosa “collocazione” al suo Vicario Generale dimissionario. Quale altra sede l’arcivescovo poteva dare al suo più stretto collaboratore, se non la prestigiosa Arcipretura di Taormina? Per fare questo, però, era necessario dimissionare il buon Sinitò. Tanti, inoltre, sono stati gli articoli, a commento della lettera che 1100 cittadini taorminesi, che “inascoltati” dal vescovo, hanno inviato al Papa Francesco. Essi sono ancora in attesa di una risposta dal Vaticano che possa restaurare la giustizia e restituire la serenità ad una comunità di fedeli riconoscenti al loro arciprete. Al di là di quanto è scritto nei giornali, oggi, a distanza di due settimane del “ricambio” nell’arcipretura di Taormina, tanti si chiedono: “Se è vero che all’insediamento di Mons. Lupò come nuovo arciprete di Taormina erano presenti ben 75 preti, tutti festosi concelebranti con il loro vescovo, ci si chiede se questi preti si sono posti e si pongono il problema di Sinitò, lasciato a casa senza alcuna destinazione (altro che trasferimento!) con la mamma anziana, che non riesce a comprendere perché il figlio non celebra più la messa nella sua parrocchia? Ci si chiede ancora: Perché l’ex arciprete si è chiuso in un sofferente e, quindi, preoccupante silenzio? Per rispondere a queste domande, credo che non sia sufficiente fare riferimento alla promessa di ubbidienza fatta al vescovo nell’atto dell’ordinazione presbiterale, specialmente quando è un confratello che subisce l’ubbidienza. Si spera veramente che in loro, come nel vescovo, ci sia una ripresa di coscienza del valore di carità, come volontà fattiva di mettere a disposizione di chi è a disagio il tempo e le energie in una scelta di condivisione. Un’altra domanda, però, sorge spontanea: come ha reagito l’arcivescovo La Piana di fronte alla valanga di articoli concernenti le dimissioni di Sinitò? A questo punto “relata refero”. In una recente riunione del clero, S. Ecc.za Mons. Calogero La Piana avrebbe sorvolato sul caso Sinitò e, in un inciso del suo discorso, avrebbe aggredito la stampa, censurato i giornali o “giornaletti” che – a suo giudizio- non dicono la verità, in quanto depositario della verità, in questo caso, è solo il vescovo. Se questo è vero, l’arcivescovo e archimandrita di Messina, nel suo intervento, non ha tenuto conto che chi scrive, a qualunque titolo, riconosce che c’è un nesso inalienabile fra la libertà di coscienza è la libertà di espressione e di stampa. Questa, del resto, è l’attuale posizione della Chiesa cattolica, a cominciare dal Vaticano II, che senz’altro rappresenta uno spartiacque importante poiché nella Chiesa viene completamente abolito ogni divieto. Una vera rivoluzione copernicana. Nella Pacem in terris, scritta da Giovanni XXIII nel 1963, si legge: “ogni essere umano ha il diritto alla libertà nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione” (DH 3959). Il Vaticano II scrive che “la vera e giusta libertà d’informazione è indispensabile all’odierna società per il suo progresso” (Inter mirifica 12). L’uomo deve poter “liberamente investigare il vero, manifestare e diffondere la sua opinione” (Gaudium et spes 59). La posizione della Chiesa la conosce bene il vescovo La Piana e sa che, nel passato, non è stato sempre così. Sono certo che egli non provi alcuna nostalgia per un trascorso della Chiesa, ormai universalmente rigettato. Se di seguito facciamo riferimento al passato, è per evidenziare quel salto di qualità circa i valori umani che la Chiesa e la cultura cattolica hanno operato ma che talvolta stentano a far diventare “res gesta”. In parole povere: spesso le affermazioni generiche rimangono sterili proposizioni di principio al riparo delle quali ciascuno si può sentire libero di immaginare -nel modo in cui meglio aggrada a se stesso o a quanti deve rendere conto- il contenuto nel quale poi dovrebbero essere eventualmente tradotti tali principi. Oggi la Chiesa accetta la libertà di stampa, ma ieri creava l’Indice dei libri proibiti (1559), sentendosi autorizzati dal Padre eterno a bruciare sul rogo i libri esecrati insieme ai loro autori (in realtà sin dal Concilio di Nicea, nel 325, fu decretato di dare alle fiamme i libri di Ario, e di uccidere chi li nascondeva). Clemente XIII, nel 1766, ricordava, con l’enciclica “Christianae rei publicae” , che “non potrà essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi facinorosi di pravità non periscano bruciati” ripetendo, così, le sanzioni che dal 1572 portavano fino alla pena di morte. E non si trattava semplicemente di una minaccia. I giornalisti dell’epoca come Nicolò Franco, Annibale Cappello e Bernardino Scatolari, sono stati fatti giustiziare da Pio V o dai suoi successori. Nel 1832, Gregorio XVI condannava solennemente “quella pessima, né mai abbastanza esecrata e aborrita ‘libertà della stampa”. Concludendo: Ritengo che sia finito, fortunatamente, il tempo in cui si nascondeva, si ignorava quanto avveniva nella gerarchia cattolica e nel mondo clericale e ciò “per il bene della Chiesa”. E’ finito il tempo in cui del vescovo bisognava sempre parlare e scrivere bene, giacchè scelto per essere il pastore di una porzione di “ gregge” a lui affidato da Dio. Oggi, il papa Francesco dice ai preti di Caserta: “ Bisogna avere il coraggio – di dire ‘Io non la penso così, la penso diversamente’, e anche l’umilta’ di accettare una correzione… E’ molto importante: tu sei un uomo, quindi se hai qualcosa contro il vescovo vai e gliela dici. Se poi ci saranno conseguenze non buone, allora, porterai la croce, ma sii uomo! Si può discutere, ci si può arrabbiare, ma c’è la gioia al di sopra di tutto, ed è importante che essa rimanga sempre in questi due rapporti che sono essenziali per la spiritualità del sacerdote diocesano".