Sua Eccellenza… considerazioni in seguito al caso dell’arciprete di Taormina

 

di ANDREA FILLORAMO

Il caso dell’Arciprete di Taormina trasferito altrove a causa dell’accusa di avere un’amante, almeno così scrivono i giornali, è stato chiuso con la nomina del suo successore, mons. Carmelo Lupò, vicario generale dell’Arcivescovo La Piana. E’ calato così il silenzio su un fatto che, al di là del gossip, ha fatto scendere in strada il popolo dei fedeli taorminesi, che ha organizzato una fiaccolata per chiedere che padre Salvatore Sinitò, il parroco della cattedrale, non venisse trasferito e ha causato una “silente ribellione” di molti preti miei amici. Essi con parole diverse sostengono con “immenso rammarico” quanto uno di loro in una email inviatami mi scriveva: «nella Chiesa messinese non si sono ancora trovati “strutture o processi di dialogo” con il vescovo che permettano di comunicare costruttivamente con le voci coraggiose che si alzano dal popolo di Dio, nel rispetto della responsabilità fondamentale». A proposito dei trasferimenti essi affermano e accusano che nell’arcidiocesi di Messina gli incarichi vengono dati da un vescovo che “non conosce” i suoi preti, che si “disinteressa” di loro, non li “consulta”, non li “ascolta”, difficilmente ascolta e premia le persone leali, vere e dotate dello spirito di amore per la critica costruttiva; nel trasferirli da una parrocchia all’altra si comporta da “ ispettore”, come previsto nello statuto dei preti religiosi (non a caso egli è stato ispettore salesiano), ma non in quello dei preti secolari e esige, quindi, un’ubbidienza “perinde ac cadaver”. Essi continuano dicendo che nell’arcidiocesi di Messina, difficilmente trovano spazio quei preti che portano avanti “visioni” differenti da quelle del vescovo, che manifestano dissenso, anche se affettuoso e creativo. Di solito il vescovo preferisce persone conformiste, inquadrate nei ranghi e che raramente sollevano questioni: è ovvio sono più funzionali alla sonnolenta istituzione che preferisce non avere a che fare con “rompiscatole”, che potrebbero mettere in discussione modi di fare e di pensare. A Messina – essi affermano – vige dovunque il clientelismo, anche quindi nella Chiesa. Chiunque detiene un potere se adotta il “clientelismo”, determina i diversi obiettivi, si muove in un contesto soggettivo e non oggettivo, non si circonda di colleghi ma di cortigiani, non di collaboratori ma di sudditi. Non ci sono forse cose che avvengono dietro le quinte? Manovre “di corridoio”, che spiazzano chi vive con trasparenza? Abbiamo bisogno nella società e, quindi, anche nella Chiesa di un’operazione di “maquillage”, di una profonda “riforma”, che operi a trecentosessanta gradi. Concludo: “Quanti preti, monsignori e vescovi sono acriticamente ubbidienti e leccapiedi!”.