
di Roberto Malini – scrittore, documentarista e storico della Shoah
Giovanni Palatucci fu un eroe o un solerte collaboratore dei nazisti, colpevole della deportazione di centinaia di ebrei? Nel giugno scorso il New York Times e successivamente i quotidiani di tutto il mondo riportarono le conclusioni di un ricerca effettuata dal Centro Primo Levi di New York. "Giovanni Palatucci fu un pieno esecutore delle leggi razziali," scrive Natalia Indrimi, direttrice del Centro, in una lettera pubblicata dal New York Times, "e, dopo aver prestato giuramento alla Repubblica sociale di Mussolini, collaborò con i nazisti". Gli esiti dello studio hanno provocato una reazione a catena. Il Museo Nazionale dell’Olocausto di Washington ha rimosso immediatamente il suo nome da una mostra, la Anti-Defamation Leage ha annullato la decisione di onorarlo con il Courage to Care Award nel 2005, mentre il sindaco di New York Michael Bloomberg ha cancellato il "Giovanni Palatucci Courage to Care Day". Contemporaneamente, lo Yad Vashem di Gerusalemme e la Santa Sede hanno deciso di analizzare i nuovi documenti alla base della ricerca del Centro Primo Levi, il primo per decidere se mantenere il nome del questore di Fiume nel novero dei "Giusti fra le Nazioni", la seconda nell’àmbito del processo di beatificazione in corso. L’inchiesta del Centro spiega inoltre che la deportazione di Palatucci a Dachau e la sua conseguente morte non furono decise dai nazisti per la sua opera di salvataggio di ebrei, ma per aver passato ai britannici i piani per l’indipendenza di Fiume.
E la testimonianza del vescovo Giuseppe Maria Palatucci, zio di Giovanni, a cui sono state attribuite fino a ieri azioni eroiche a favore degli ebrei perseguitati, realizzate in team con il nipote? Natalia Indrimi e il Centro Primo Levi spiegano che fu proprio lui a creare truffaldinamente il mito: "Tutto iniziò nel 1952, quando lo zio vescovo raccontò questa storia per garantire una pensione ai parenti dell’uomo".
Devo dire che in un primo momento le conclusioni dello studio mi sono parse attendibili. Perché non vi erano tracce dei cinquemila ebrei (questo è il numero che riferì Rafael Danton, delegato italiano, alla prima Conferenza Ebraica Italiana tenutasi a Londra nel 1945) salvati da Palatucci? Perché solo poche voci avevano testimoniato a suo favore? Perché la documentazione è così scarsa e fa capo quasi sempre alle dichiarazioni di Giuseppe Maria? I precedenti esami della vicenda del questore di Fiume – alla base del suo riconoscimento fra i "GIusti" da parte di Yad Vashem – ponevano l’accento sul fatto che Giovanni Palatucci avesse salvato decine di ebrei inviandoli, dopo l’arresto a Fiume, nel campo di concentramento di Campagna (Salerno), dove lo zio vescovo era in grado di proteggerli. E qui è sorta spontanea un’altra domanda: come poté salvarli? A quanto ne sappiamo, le due caserme di Campagna accolsero 340 internati all’inizio, che si ridussero a circa 200 (centotrenta, secondo il testimone Wilhelm Baehr) all’arrivo delle truppe alleate. Come illustra il Centro Primo Levi, essi furono salvati dalla fine della guerra e non dall’intervento di eroi. Un’altra informazione fornita da Giuseppe Maria sembra contraddittoria. Il vescovo, infatti, affermò che tutta la cittadinanza di Campagna protesse gli ebrei durante il loro internamento e fu decisiva per la loro salvezza. Il sopravvissuto Wilhelm Baehr, tuttavia, che fu fra gli ebrei di Campagna, scrisse nelle sue memorie – conservate presso il Cdec di Milano – che "gli abitanti sono ad un livello culturale molto basso, quasi nessuno sa leggere e scrivere, per cui non abbiamo potuto stabilire alcun contatto con loro". Sulla base di queste evidenze, ho scritto più volte ai ricercatori con cui sono in contatto, presso il Museo Yad Vashem e altri istituti, lamentando la pressione che da più parti raggiungeva il Centro Primo Levi, il Museo dell’Olocausto di Washington, la Anti-Defamation League e lo stesso memoriale di Gerusalemme: "Dobbiamo onorare i Giusti fra le Nazioni, perché rappresentano il lato migliore dell’umanità, ma contemporaneamente dobbiamo aver fiducia nella ricerca, perché il nostro obiettivo di studiosi ed educatori è il raggiungimento della verità". Proseguendo nell’analisi del caso Palatucci, mi accorgevo però di come via via emergessero prove della sua opera a difesa degli ebrei a rischio di deportazione verso i campi di morte. E’ vero, il questore non poté evitare la deportazione degli ebrei residenti a Fiume. I "settecento documenti inediti" di cui parla il Centro Primo Levi sono in realtà sotto gli occhi di tutti, basta aprire il database online del Museo Yad Vashem, che riporta le schede delle oltre quattrocento vittime ebree che vivevano a Fiume. I nazisti decimarono la loro comunità ebraica, che comprendeva circa cinquecento individui. Basta digitare "Fiume" nello spazio riservato al luogo di residenza e i loro nomi appaiono, con l’età ed altri dati essenziali, spesso tutto ciò che rimane di loro. Come ricordano i sopravvissuti Thomas Gazit e Wolf Murmelstein, miei cari amici, solo operando dall’interno delle istituzioni era possibile evitare le deportazioni di massa. "In quell’epoca solo persone ritenute affidabili dal regime nazi-fascista potevano aiutare," mi scrive Murmelstein, "evitando qualsiasi pubblicità e senza lasciare lasciare documentazione. Schindler ha potuto aiutare gli ebrei perché iscritto al partito nazista. Nel 1940 era grande l’impegno dei dirigenti ebrei italiani per ottenere che i profughi non venissero espulsi, consegnati alla Gestapo, ma mandati in internamento da qualche parte in Italia. I funzionari di polizia che hanno disobbedito all’ordine di espellere i profughi erranti, mandandoli invece in qualche comune dell’Italia del Sud hanno meriti che certamente non potevano documentare con cura notarile". Produrre documenti durante la Shoah, per un "Giusto fra le Nazioni", avrebbe significato lasciare le prove di quello che i nazisti consideravano alto tradimento, mettendo in pericolo la propria vita e quella degli ebrei che si cercava di aiutare. Dunque, per identificare le tracce delle azioni di Giovanni Palatucci e dello zio vescovo, bisogna rovistare fra le carte di famiglia. Il carteggio fra Giuseppe Maria e le autorità (circa tremila lettere) mostra come molti degli ebrei trasferiti da Giovanni a Campagna furono successivamente aiutati a trasferirsi in Sud America, per ricongiungersi a parenti, con lettere di raccomandazione prodotte dal vescovo. I trasferimenti ordinati dal ministero furono pilotati verso campi di concentramento in cui esisteva una concreta possibilità di evitare la persecuzione, come Ferramonti di Tarsia. Digitando "Salerno" (o "Altavilla") sul database dei martiri della Shoah, nel sito del Museo Yad Vashem, appaiono 32 nomi di ebrei. La località di nascita riportata dalle schede è Altavilla Silentina. Come documentato dal giornalista e storico della Shoah Nico Pirozzi in Fantasmi del Cilento – Da Altavilla Silentina a Lenti un’inedita storia della Shoah ungherese (Editrice Cento Autori 2007), quei trentadue ebrei erano parte della comunità ebraica di Lenti, in Ungheria, comunità che contava 52 individui in tutto (i restanti figurano anch’essi, purtroppo, fra le vittime della Shoah; per trovare i loro nomi basta digitare "Lenti" nel database). Pirozzi documenta inoltre come fossero stati proprio Giovanni Palatucci e lo zio vescovo a organizzare il piano si salvataggio degli ebrei di Lenti. Attraverso un soldato di leva di campagna, tale Alberto Remolino, Giuseppe Maria fece pervenire al nipote un numero imprecisato di certificati di nascita e di residenza trafugati dal municipio di Altavilla Silentina (Salerno). I documenti raggiunsero, tramite un altro corriere, la comunità ebraica di Lenti, che nella primavera del 1944 tentò di utilizzarli per raggiungere Fiume. Il progetto, tuttavia, fallì e i nazisti arrestarono gli ebrei della cittadina ungherese, la maggior parte dei quali trovò la morte nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. In base alle spietate procedure di interrogatorio attuate dai nazisti, è probabile che il nome del questore (o vice-commissario aggiunto) di Fiume sia emerso proprio in seguito agli arresti di Lenti e che l’operazione-salvataggio gli sia costata un’accusa di tradimento e di conseguenza l’arresto, avvenuto il 13 settembre 1944, la deportazione a Dachau e la morte, sopraggiunta il 10 febbraio 1945. Il tentato salvataggio degli ebrei di Lenti è la prova tangibile di come operasse Giovanni Palatucci per salvare gli ebrei perseguitati, non solo trasferendoli nei campi del sud Italia, dove poteva contare sulla cooperazione umanitaria di autorità ecclesiastiche a civili, ma anche producendo documenti falsi, rischiando costantemente la vita, per ingannare la macchina di morte nazifascista. Ho trasmesso queste mie valutazioni al Centro Primo Levi, alla Anti-Defamation League, al Museo dell’Olocausto di Washington, al Museo Yad Vashem di Gerusalemme e al sindaco di New York invitandoli a prenderne atto e restituire a Giovanni Palatuci gli onori che merita per aver salvato un numero di vite umane che è impossibile definire, vista la segretezza in cui i Giusti fra le Nazioni operarono, e per aver sacrificato la propria vita servendo i più alti valori della nostra civiltà.