Il problema della custodia cautelare in carcere, risiede nel codice

“Quando si discute di un abuso della custodia cautelare in carcere, si dice una cosa che formalmente non è propriamente corretta.” E’ quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che aggiunge: “Nel processo, e in questo caso nel processo penale, i giudici, i pubblici ministeri e gli avvocati, hanno ciascuno uno specifico ruolo, ma tutti si muovono pur sempre nell’ambito della legge, di ciò che è codicisticamente previsto o di interpretazioni, ragionamenti e valutazioni che sono codicisticamente consentiti.” “In sostanza, – prosegue – possono variare le modalità di esecuzione che sono proprie delle singole personalità e delle diverse sensibilità, ma il brano, lo spartito, è sempre lo stesso per tutti.” “Da qui – osserva – si spiega il fenomeno che viene definito di abuso della custodia cautelare in carcere: non si tratta solo di qualche eccesso individuale, di qualche errore umano sempre possibile o di un massivo orientamento anomalo nell’ambito del processo penale, ma di un problema che è così grande, perchè è codicistico e quindi va coinvolgendo, come è naturale, tutti i Tribunali della Repubblica.” “Questa precisazione, – sottolinea – non toglie la necessità di ridimensionare il ricorso a questa misura ed allo stesso tempo avvalora il fatto dell’opportunità di rimeditare il sistema delle misure soprattutto per la ragione di consentire una maggiore aderenza ed una tendenziale conformità con l’art. 27 della Costituzione”. “Difatti, – sostiene – se l’art. 27 Cost., recita che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, ad esempio più significativo di capovolgimento della ratio dello stesso articolo, può rappresentarsi che non sono pochi i casi di custodie cautelari in carcere, a cui fanno seguito delle sentenze di assoluzione.” “Probabilmente, – continua – per quanto concerne la custodia cautelare in carcere, non è sufficiente dire che essa possa essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata, non basta dire che la custodia cautelare in carcere possa essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni. Bisogna restringere gli spazi di valutazione, restringere le tante e possibili valutazioni di proporzionalità della misura all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, restringere le tante e possibili valutazioni inerenti il pericolo di fuga, il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo della commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.” “Sarebbe quindi necessario – precisa – inserire degli elementi maggiormente tassativi e inequivocabili.” “Il Codice, difatti, – spiega – sembra più preoccuparsi di esporre i casi in cui non possa essere disposta la custodia cautelare in carcere, che esporre precisamente i casi in cui debba essere disposta. Inoltre, non c’è una precisa esplicitazione degli elementi da cui trarre l’inadeguatezza delle altre misure che è la condizione necessaria per l’applicazione della custodia in carcere.” “Pertanto, necessita una prospettiva di riforma ed in quest’ottica – conclude – potrebbe anche ragionarsi nel senso di una maggiore specificazione delle figure di reato, che effettivamente giustifichino la misura della custodia in carcere.”