Le due diverse visioni della Chiesa: Papa Francesco e Papa Benedetto XVI

di ANDREA FILLORAMO

 

È cosa certa: Papa Francesco e il suo predecessore Papa Benedetto XVI hanno due diverse visioni della Chiesa, che cerchiamo di evidenziare. Ci soffermiamo particolarmente, però, sulla visione di Bergoglio, in quanto Papa Francesco svolge in modo nuovo il suo essere vescovo di Roma e Capo della Chiesa, dando testimonianza, oltretutto, di una di vita sobria e totalmente distaccata dai beni che non si riscontra nei suoi predecessori…

 

Sono, oltretutto tanti coloro che vedono in lui il papa rispettoso di quelle tradizioni che veramente giovano alla fede e cerca di abbattere, invece, quelle che allontanano, rimanendo sempre aperto alle istanze antropologiche e morali, alle quali è lo stesso Vangelo che dà risposte che egli aiuta a riscoprire. Ciò era impensabile nell’era dei suoi predecessori. Per questo egli ha un largo seguito nel mondo, anche non cattolico, tanto da diventarne un leader spirituale indiscusso.    

In grande sintesi diciamo che la Chiesa di Francesco è caratterizzata dal “discernimento”, cioè dalla capacità di valutare i termini dei problemi che deve affrontare, così da poter operare scelte corrette e, quindi, dalla necessità di saper individuare e distinguere le situazioni per potere assumersi e fare assumere – a laici e clero – la responsabilità dell’interpretazione degli accadimenti.

La chiesa di Papa Bergoglio, inoltre, ha al centro sempre la carità evangelica, che fa superare barriere culturali e sociali, e che costringe a rivedere le credenze e le convinzioni accumulate da anni, anzi da secoli, che hanno distinto per molto tempo l’identità cattolica.

In un mondo alle prese con grandi trasformazioni e di gravi ingiustizie, aggravate dalla crisi del clima e dalla pandemia, la Chiesa di Bergoglio non sceglie di polemizzare con il mondo o dilaniarsi al proprio interno, ma vuole imparare la medicina della misericordia, dell’incontro, dell’ascolto per dirla con le seguenti parole del papa in un’omelia in S. Pietro. “In questi giorni Gesù ci chiama, come fece con l’uomo ricco del Vangelo, a svuotarci, a liberarci di ciò che è mondano, e anche delle nostre chiusure e dei nostri modelli pastorali ripetitivi; a interrogarci su cosa ci vuole dire Dio in questo tempo e verso quale direzione vuole condurci”.

la Chiesa di Benedetto XVI, invece – lo diciamo con grande rispetto che si deve ad un Papa e forse al più grande teologo del 900 – è quella del passato preconciliare, che dimostra – a parere di tanti – grande debolezza quando si confronta con gli eventi della storia che incalzano e non riesce a dimostrare la sua coerenza al messaggio cristiano.

Tutto parte, quindi, in Papa Benedetto, dalla sua interpretazione che dà del Concilio Vaticano II.

Basta, infatti, citare quanto, appena eletto, nel 2005, egli ha detto commentando l’anniversario della sua conclusione : “Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto?…Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro: «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …». Emerge quindi la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione…”.

Benedetto XVI, quindi, interpreta il Concilio in modo tale da ricondurre il mondo cattolico all’interno di un orizzonte religioso in cui possano sparire i semi profetici e non del tutto espressi in maniera conclusa del Vaticano II e venga impedito ogni sviluppo profondo nella direzione del cambiamento del sistema Chiesa e in questa chiusura sta in parte quel fallimento della chiesa ratzngeriana.

Da qui il tema della morale sessuale, quello del sacerdozio alle donne, del celibato dei preti, dell’ecumenismo, della indagine teologica, dei diritti civili in generale, che hanno visto la ricerca e l’opera del teologo Ratzinger orientate non al semplice rifiuto, ma ad una ragionata e articolata difesa delle scelte aprioristiche e conservatrici della sua Chiesa, a un ripristino della vecchia liturgia e l’accoglienza data al movimento scismatico di Lefevre.

Da qui persino i vari accessori in disuso nella Chiesa, con cui egli si adornava. Oltre al camauro, nel 2005 indossò per la prima volta una mozzetta, la mezza mantella degli ecclesiastici che copre solo le spalle. Un vestiario che ha rafforzato l’immagine di uomo conservatore. Ciò è avvenuto attraverso l’applicazione di un modello interpretativo in cui le contraddizioni tra il messaggio, sempre nuovo e vivo, lasciatoci da Gesù, da una parte, e, dall’altra, i morti dettami di una fede, venissero risolte e ricomposte a favore di questa fede tradizionale, dalla quale si allontanano tanti fedeli.  

Si è così realizzata la scomparsa della vitalità del Vangelo, capace di parlare alle donne e agli uomini di epoche diverse per rispondere in modo necessariamente nuovo a domande nuove.

Quella di Ratzinger, quindi, appare come un Chiesa medioevale che troviamo tutt’intera nella conferenza che il professore Ratzinger, all’epoca docente ordinario di Dogmatica all’Università di Ratisbona, tenne, il 4 giugno 1970, su invito dell’Accademia Cattolica di Baviera. Il tema era davvero molto accattivante: “Perché sono ancora nella Chiesa”. Egli così rispose: “Di motivi per non essere più nella Chiesa, oggi ce ne sono molti e diversi tra loro. A voltare le spalle alla Chiesa si sentono spinti non più solo coloro ai quali la fede della Chiesa è diventata estranea, ai quali la Chiesa appare troppo arretrata, troppo medievale, troppo ostile al mondo e alla vita, bensì anche coloro che amarono nella Chiesa la sua figura storica, la sua liturgia, la sua inattualità, il suo riverbero di eternità”.

Alle stesse conclusioni egli giunge in un suo intervento circa lo scandalo degli abusi sessuali, in cui libera la chiesa da ogni responsabilità e colpa quando scrisse: “Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un ‘nemico’ di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità”.

Così continuava il Papa emerito: “L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è anche oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli”.

Per il teologo Ratzinger, inoltre, gli inevitabili cambiamenti comunque introdotti dal Concilio dovevano essere riproposti con un nuovo vestito, cioè presentandoli come frutto di una interpretazione corretta della storia della Chiesa, interpretazione che garantisse la sua infallibilità nel corso del tempo

Ecco, quindi, la funzione della sua metodologia, “l’ermeneutica della riforma nella continuità”, necessaria a falsare e rendere inoffensivo un concetto altrimenti fortemente innovativo – almeno per la Chiesa cattolica – quale quello della libertà pubblica di culto per ogni fede.

L’ermeneutica di Benedetto XVI si è posta  infatti l’obiettivo di spiegare in che modo l’aggiornamento e la trasformazione di alcuni aspetti della vita della Chiesa, promossi dal Vaticano II per una reinterpretazione ed attualizzazione del Vangelo, non fossero cambiamenti originali, salti di “qualità teologica” rispetto a un passato di papi e gerarchia ancorati ad una lettura medievale del Vangelo, non fossero segnali evidenti di “discontinuità” perché questo eventuale riconoscimento avrebbe rimesso in discussione chiusure e rifiuti, disposti dalla Chiesa nel passato e valutati invece dal Papa “infallibili” e definitivi.

Lo sforzo di Benedetto XVI è stato quindi indirizzato a dimostrare la possibilità che questi cambiamenti venissero considerati come inevitabili sviluppi di una Verità eterna ed originaria, la quale avrebbe sempre accompagnato la vita della Chiesa in ogni momento della sua storia e che, dalla Chiesa, essa non sarebbe mai stata dimenticata; perciò – attraverso l’elaborazione di un pensiero la cui fondatezza storica tuttavia non viene da lui dimostrata – egli ha potuto sostenere la presenza immutabile, nella pratica e nella teoria ecclesiastica, degli stessi primigeni elementi di fede e di morale, dall’epoca dei Vangeli al Terzo Millennio, a conferma di una Chiesa che, sulle questioni di fede e morale, non ha mai modificato il suo giudizio.

Al di là di quanto possano dire o pensare i nemici di Papa Francesco, il suo papato ha portato una nuova atmosfera alla vita pastorale delle Chiese locali. La Chiesa ha allentato (che non significa ancora superato) la sua ossessione sui temi di morale sessuale. La pillola anticoncezionale, la convivenza prima del matrimonio, il divorzio, le relazioni omosessuali non incombono più sul paesaggio come princìpi non negoziabili. I parroci si sentono sollevati: non sono più obbligati in situazioni pastorali impossibili.

La Chiesa non è una “dogana”, ha detto Francesco, ma un” ospedale da campo”. Le sue parole e i suoi gesti hanno rinfrancato la vita del popolo di Dio ancor più delle sue encicliche e hanno portato il messaggio della misericordia di Dio ben al di là dei confini della Chiesa.

Se leggiamo bene la lettera di questi giorni, che il Papa emerito scrive per difendersi dall’accusa di aver taciuto, anzi di essere un bugiardo davanti ad alcuni casi di pedofilia di preti quando era arcivescovo di Monaco, egli ancora una volta, però, afferma l’indefettibilità della Chiesa.

 Ma – diciamolo chiaramente –   l’indefettibilità della Chiesa non si può identificare con l’indefettibilità di un Papa,  al quale, anche per l’età molto avanzata, si perdona tutto,  si riconosce il merito di essere stato un grande teologo e di essersi  dimesso dal papato, perché schiacciato non dal senso di colpa che non sente e non ha ma forse dall’incapacità con la quale, nell’ultima fase del suo pontificato, ha retto e gestito la nave di una Chiesa che rischiava di andare alla deriva, lasciando al timone Papa Francesco che cerca in tutti i modi di condurla in un porto sicuro.