1 DONNA SU 3 HA SUBITO VIOLENZA FISICA O PSICOLOGICA NELLA PROPRIA VITA. PERCHÉ, ALLORA, È ANCORA COSÌ DIFFICILE DENUNCIARE?

Ci sono uomini che amano le donne e altri che vogliono possederle, controllarle, manipolarle e che, per ottenere ciò, non esitano a fare ricorso alla violenza.

Il 25 novembre si celebra nel mondo la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una ricorrenza istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle più devastanti piaghe della nostra società.

Violenza verso le donne: violazione dei diritti umani e problema di salute pubblica.

La violenza di genere è a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani, come stabilito anche dalla Convenzione di Istanbul, il più importante trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011: “con l’espressione ‘violenza nei confronti delle donne’ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce, invece, la violenza di genere “un problema di salute di proporzioni globali enormi” e stima che 1 donna su 3, ovvero oltre 700 milioni in tutto il mondo, subisca violenza fisica o psicologica da parte di un uomo nel corso della propria vita.

 

Come sancito dalla Convenzione di Istanbul e dall’OMS, la violenza perpetrata contro le donne costituisce, quindi, sia una grave violazione dei diritti umani che una significativa problematica di salute pubblica. La violenza può, infatti, avere forti ripercussioni sul benessere fisico, mentale, sessuale e riproduttivo di coloro che ne sono vittime, sul breve così come sul lungo termine. Le conseguenze possono tradursi per le donne in isolamento sociale, limitazioni nell’abilità lavorativa e compromissione della capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. Gli effetti della violenza di genere si estendono, quindi, ben oltre l’individuo coinvolto, influendo sul benessere di coloro che lo circondano – le famiglie e i figli, in primis – e dell’intera comunità.

 

 

La violenza di genere in Italia.

Il 25 ottobre i casi di femminicidio registrati in Italia nel 2023 hanno raggiunto quota 100 e, da allora, non hanno smesso di aumentare. Un dato allarmante che mostra come la violenza sulle donne sia una piaga dilagante anche nel nostro Paese. Oltre agli episodi che, a causa del loro tragico epilogo, sono arrivati all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, ci sono moltissime altre storie di abusi e soprusi sommerse, a cui nessuno dà voce.

 

Secondo l’Istat, nei primi tre trimestri del 2023 sono state 30.581 le richieste d’aiuto arrivate tra telefonate e messaggi via chat al 1522, la linea nazionale antiviolenza e stalking. Un numero molto preoccupante, soprattutto se confrontato con le 22.553 registrate nel 2022 e le 24.699 del 2021.

Nel 47,6% dei casi è la violenza fisica a motivare la richiesta di aiuto. La violenza psicologica è la seconda causa delle chiamate (36,9%). Quando gli abusi sono multipli, è, invece, proprio la violenza psicologica a essere subita in forma più rilevante (62,3%).

Più della metà (64,5%) delle donne che si sono rivolte all’1522 nel 2023 riporta di aver subito violenze per anni, il 25,5% per mesi, mentre il dato relativo alle richieste di aiuto a seguito di uno o pochi episodi di violenza si attesta al 10%.

Il 24,8% delle vittime che si sono rivolte all’1522 ha paura di morire oppure teme per la propria incolumità o quella dei propri cari, mentre il 10,2% si sente molestata, ma non in pericolo. Altre donne, invece, provano forte ansia o si sentono in grave stato di soggezione.

Le violenze riportate all’1522 sono soprattutto di tipo domestico: nei primi tre trimestri del 2023 il 79,4% delle vittime dichiara che il luogo della violenza è la propria casa. Quasi la metà delle donne abusate, il 44,5%, è madre e di esse il 24,3% ha figli minori. Nel 57,1% dei casi anche i figli hanno assistito alla violenza e il 25,8% l’ha subita in prima persona.

Dai racconti raccolti dagli operatori emerge che la maggior parte delle vittime sceglie di non denunciare la violenza subita alle autorità competenti. Solo 1.311 donne, il 15,8% di coloro che hanno contattato l’1522 nel 2023, hanno sporto denuncia. C’è, quindi, una persistente resistenza a denunciare: il 59,4% delle vittime dichiara, infatti, di non aver denunciato anche se la violenza è perpetrata da anni.

 

Nella foto: la Dott.ssa Valeria Fiorenza Perris, 

Psicoterapeuta e Clinical Director di Unobravo

 

Donne vittime di violenza: perché è così importante e, al contempo, difficile denunciare?

“Denunciare significa dover affrontare la verità dolorosa di quanto vissuto, cosa molto difficile da fare. Sono, infatti, molteplici le paure e le preoccupazioni che frenano chi subisce violenza e i motivi per cui le donne spesso non denunciano sono vari e complessi. Può esserci il timore di denunciare per paura della reazione dell’aggressore e di subire ritorsioni, ma anche l’ansia legata allo stigma sociale, la preoccupazione del giudizio o di non essere creduta, la vergogna e il senso di colpa. Alcune donne, invece, non denunciano per paura di compromettere il contesto familiare o perché non sono finanziariamente autonome e non saprebbero dove altro andare. Anche i meccanismi psicologici di difesa che spesso si innescano nelle vittime di violenza di genere possono, a volte, costituire un freno. Creare ed educare a un contesto sociale in cui le donne possano sentirsi libere e sicure di denunciare le violenze subite è quanto mai necessario. Per promuovere un passo così significativo come la denuncia è, infatti, essenziale che le vittime si sentano ascoltate, accolte, non giudicate, protette, supportate e tutelate”, ha commentato la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris, Psicoterapeuta e Clinical Director del servizio di psicologia online e società Benefit Unobravo.

 

Quando la mente protegge se stessa: i meccanismi psicologici di difesa.

I meccanismi psicologici di difesa sono dei processi inconsci che si attivano automaticamente di fronte a eventi, interni o esterni, percepiti come pericolosi o stressanti, come, ad esempio, gli episodi di violenza. Nonostante questi meccanismi abbiano un’importante funzione protettiva e difensiva, potrebbero, in alcuni casi, alterare la percezione di pericolo e far sì che la vittima di violenza abbassi la guardia e non prenda azioni concrete per salvaguardare la propria incolumità.

 

“I meccanismi di difesa psicologici sono risposte automatiche e inconsce che la nostra mente mette in atto per proteggersi di fronte a situazioni stressanti o minacciose. Spesso sono risposte apprese durante l’infanzia, quando ci si è trovati a fronteggiare situazioni difficili e a provare emozioni intense come paura, orrore o impotenza, da cui non era possibile sottrarsi. Questi meccanismi possono persistere anche in età adulta e attivarsi nuovamente in situazioni in cui si percepisce un pericolo, come accade in un’aggressione o un episodio di violenza. Sebbene abbiano una funzione protettiva e difensiva, non sempre queste risposte producono effetti positivi sul benessere della persona, come, ad esempio, nel caso della violenza di genere. Non è, infatti, raro che le donne vittime di violenza attivino dei meccanismi di difesa psicologici come risposta innata ai traumi e allo stress causati dai soprusi subiti. Attraverso la negazione, la dissociazione, la razionalizzazione e altre strategie di coping, le vittime possono essere portate a minimizzare il trauma, alleviare il dolore emotivo, preservare l’autostima e proteggersi dalla vergogna associata alla violenza. Prendere consapevolezza delle proprie difese, riconoscendole, identificando da dove hanno avuto origine e comprendendo il loro funzionamento, è fondamentale per poter interrompere il ciclo della violenza”, ha dichiarato la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris del servizio di psicologia online Unobravo.

 

 

Tipi di meccanismi di difesa psicologici.

Alcuni tra i più comuni meccanismi di difesa psicologici messi in atto dalle donne vittime di violenza sono:

 

  • Negazione: La negazione è una risposta comunemente attuata dalle donne durante le prime fasi della violenza. Consiste nel proteggersi da una situazione traumatica evitando di guardarla e mettendo da parte o eclissando gli aspetti dolorosi e insostenibili della realtà. Coloro che mettono in atto questo meccanismo spesso tendono a minimizzare o addirittura a giustificare il comportamento dell’aggressore. La negazione può essere molto pericolosa, in quanto potrebbe portare la donna a non proteggersi da possibili nuovi maltrattamenti o abusi.

 

  • Evitamento: L’evitamento indica l’impossibilità di confrontarsi con un’esperienza traumatica. Nel raccontare le violenze subite, le donne che attuano questo meccanismo tendono spesso a perdersi in dettagli superflui, mantenendo una certa distanza dal problema principale. In molti casi si nota anche la tendenza a evitare situazioni che possano provocare e far “scattare” l’aggressore. L’evitamento può portare le donne a illudersi di aver trovato una strategia efficace con cui gestire la situazione e ciò può causare la procrastinazione della denuncia.

 

  • Dissociazione e depersonalizzazione: La dissociazione è una strategia difensiva che aiuta a distanziarsi da una situazione intollerabile, in cui non c’è altra via d’uscita per sottrarsi alla violenza. La dissociazione è un sintomo tipico del disturbo post traumatico da stress e consiste nel distaccarsi con la mente da ciò che procura dolore e dalle emozioni associate, nel tentativo di attenuarne l’impatto e proteggersi. In alcuni casi, questo meccanismo di sopprimere il dolore emotivo attraverso la disconnessione può prendere la forma della depersonalizzazione: le vittime possono sentirsi come spettatrici della propria vita, quasi come se la violenza stia accadendo a qualcun altro, contribuendo a distanziare l’esperienza traumatica.

 

  • Minimizzazione: La minimizzazione consiste nel sottostimare e minimizzare gli atti violenti, considerandoli meno gravi di quanto siano in realtà. Questo meccanismo può sì contribuire a ridurre il dolore emotivo, ma potrebbe, al contempo, mettere seriamente a rischio l’incolumità delle donne che lo attuano.

 

  • Razionalizzazione: Tale meccanismo consiste in una giustificazione razionale del comportamento dell’aggressore da parte della vittima che, in questo modo, tenta di gestire e tenere a distanza le proprie emozioni. È così che la donna cerca di spiegare e giustificare il comportamento violento del partner attribuendolo a fattori esterni, come lo stress, la gelosia o problemi personali.

 

  • Idealizzazione: Idealizzare qualcuno significa concentrarsi sulle sue qualità positive, ignorandone i difetti. Questo meccanismo può far sì che la donna si focalizzi esclusivamente sui momenti positivi trascorsi col partner, bloccando l’accesso alle memorie traumatiche e impedendole, così, di vedere gli aspetti abusivi della relazione e allontanarsene. In alcuni casi l’idealizzazione può essere sostenuta da alcune credenze disfunzionali, come l’idea che atteggiamenti di gelosia e controllo siano indici dell’attaccamento del partner.

 

“I meccanismi di difesa utilizzati dalle vittime di violenza possono essere il riflesso del contesto sociale o familiare in cui esse si trovano a vivere. Può accadere, infatti, che le donne che chiedono aiuto, invece di ricevere comprensione e supporto, si trovino a scontrarsi con un muro di indifferenza, biasimo e giustificazioni. Ciò può contribuire a minarne l’autostima e a consolidarne il senso di impotenza appresa, sfiducia e ambivalenza, portandole, così, inevitabilmente a oscillare tra il pensiero di andare via e l’idea contrastante che restare e resistere porterà a un cambiamento. In queste circostanze si possono sperimentare intense emozioni, come, ad esempio, la vergogna per ciò che gli altri potrebbero pensare di quanto vissuto, il timore di essere fraintese dalla società o di non essere credute, il senso di colpa per quanto un’esperienza di violenza subita possa incidere sulla famiglia, la tristezza per il deterioramento delle relazioni e la paura di possibili ritorsioni. Tutto questo può contribuire a far diventare le donne vittima di violenza ancora più vulnerabili e render loro ancora più difficile tutelare sé stesse”, ha commentato la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris.

 

Dalla violenza si esce: la psicoterapia a supporto delle donne vittime di abusi.

“Prendere consapevolezza di essere vittime di violenza non è semplice e decidere di reagire, anche con una denuncia, può costituire una sfida ancora più grande. La terapia psicologica può rappresentare un primo passo: potersi esprimere liberamente, in uno spazio sicuro, riservato e privo di giudizio, sentendosi ascoltate e accolte è, infatti, un passaggio chiave per poter prendere maggiore coscienza di sé e dei soprusi subiti. Inoltre, il ciclo della violenza espone coloro che ne sono vittime a molteplici fattori di rischio. Alcune donne, a seguito delle aggressioni vissute, potrebbero sviluppare disturbi da stress post-traumatico, che necessitano di cure e interventi specifici. Tra i compiti  del terapeuta ci sarà anche quello di aiutare la donna a riconoscere i comportamenti violenti e a comprendere tutti quei meccanismi, incluse le difese psicologiche, che possono intrappolarla in una relazione abusante. Sarà poi importante individuare e rafforzare le risorse personali e quelle presenti nell’ambiente, indirizzando la paziente verso servizi locali specializzati nella gestione della violenza di genere. Infine, è essenziale che la donna si senta accompagnata, sostenuta e supportata nel processo di allontanamento dall’aggressore. La terapia, infatti, oltre al supporto emotivo, può fornire anche strumenti pratici e risorse che contribuiscono a far sì che la donna riacquisisca pian piano il controllo della propria vita, elaborando i vissuti traumatici, riconquistando la propria autostima, ma soprattutto la capacità di curare e amare sé stessa. Infine, è importante ribadire il messaggio che dalla violenza è possibile uscire. Con il tempo e gli aiuti adeguati, ogni donna vittima di violenza può a riscoprire il proprio valore e  costruire un percorso di rinascita dopo l’esperienza traumatica della violenza”, ha dichiarato la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris, Psicoterapeuta e Clinical Director del servizio di psicologia online Unobravo.

 

Cosa fare se si è vittime di violenza.

Anche una volta presa coscienza di essere state vittime di violenze fisiche o psicologiche, sono molte coloro che sono restie a chiedere aiuto o non sanno a chi rivolgersi. La tempestività dell’intervento e della denuncia, però, può essere salvifica. Le donne vittime di abusi possono trovare supporto al numero antiviolenza e stalking 1522, gratuito e attivo 24h su 24. A seguito della richiesta di aiuto, si può venire affidate a un centro antiviolenza nella propria città. La presa in carico prevede un accompagnamento psicologico, un supporto medico e giudiziario. I costi giudiziari sono a libero patrocinio: non sostenuti dalla vittima, ma dallo Stato. Anche in caso di ricovero presso strutture sanitarie e di alloggio in case-famiglia, le donne abusate sono difese in modo totalmente gratuito.

 

Come aiutare una donna vittima di violenza?

“Per prima cosa è essenziale sospendere ogni forma di giudizio e mostrare, invece, ascolto e comprensione. L’istinto di chi osserva dall’esterno è spesso quello di voler offrire un aiuto immediato, incoraggiando la vittima a uscire quanto prima dalla relazione violenta. Purtroppo, questo approccio può risultare fallimentare e generare frustrazione e senso di impotenza sia nella vittima che nella persona che ha offerto il suo aiuto. È importante comprendere che le vittime di violenza necessitano spesso di tempo, sia per prendere consapevolezza della situazione che stanno vivendo, sia per contrastarla . L’aiuto più prezioso che possiamo dare è essere presenti e mostrarci come un punto di riferimento, pronti a intervenire al momento giusto”, ha commentato la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris.

 

Ognuno di noi può contribuire in prima persona a spezzare l’eredità di violenza.

“Ciascuno di noi, sia uomo che donna, può fare molto per far sì che la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne passi dall’essere un momento di urgenza e lotta contro la violenza di genere a un’occasione in cui celebrare i traguardi raggiunti dalla nostra società. Ognuno di noi ha un ruolo da svolgere in questo processo di costruzione di una società più paritaria e libera dal sistema patriarcale, dalla mascolinità tossica, dal machismo e dalla misoginia. Innanzitutto, è cruciale promuovere maggiormente l’educazione sessuale e affettiva. Fondamentale è, poi, diffondere la cultura del consenso, per far sì che  ogni persona sia nelle condizioni di decidere liberamente se dare o meno il proprio consenso sessuale. Anche la responsabilizzazione individuale gioca un ruolo chiave, incoraggiando le persone a rifiutare e contrastare attivamente qualsiasi comportamento sessista, dal catcalling alla violenza sessuale. Allo stesso tempo, è cruciale creare un ambiente in cui le vittime di violenza si sentano ascoltate, supportate e tutelate dalla società e dalle istituzioni. Promuovere modelli positivi di mascolinità e lavorare per l’uguaglianza di genere sono ulteriori passi importantissimi. Solo attraverso un impegno collettivo possiamo sperare di cambiare queste dinamiche e costruire una società più egualitaria, rispettosa e inclusiva”, ha concluso la Dottoressa Valeria Fiorenza Perris, Psicoterapeuta e Clinical Director del servizio di psicologia online Unobravo.