Tribunale Ue: Google, conferma condanna e multa da 4,1 mld

Il Tribunale conferma, in larga misura, la decisione della Commissione secondo la quale Google ha imposto restrizioni illegali ai produttori di dispositivi mobili Android e agli operatori di reti mobili, al fine di consolidare la posizione dominante del suo motore di ricerca…

Al fine di tener conto in modo migliore della gravità e della durata dell’infrazione, il Tribunale giudica tuttavia appropriato infliggere a Google un’ammenda di importo pari a EUR 4,125 miliardi al termine di un ragionamento che si discosta, su taluni punti, da quello della Commissione.

Google [1], un’impresa del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione specializzata nei prodotti e servizi collegati a Internet, trae la parte essenziale del suo ricavato dal suo prodotto-faro, il motore di ricerca Google Search. Il suo modello commerciale è basato sull’interazione tra, da un lato, un certo numero di prodotti e servizi proposti abitualmente senza spese per gli utenti e, dall’altro, servizi di pubblicità in linea che utilizzano i dati raccolti presso i suddetti utenti. Google propone, inoltre, il sistema operativo Android, di cui, nel luglio 2018, erano equipaggiati circa l’80% dei dispositivi mobili intelligenti utilizzati in Europa, secondo la Commissione europea.

Diverse denunce indirizzate alla Commissione in merito a determinate pratiche commerciali di Google nell’Internet mobile hanno indotto detta istituzione, il 15 aprile 2015, ad avviare una procedura nei confronti di Google relativamente ad Android [2].

Con decisione del 18 luglio 2018 [3], la Commissione ha sanzionato Google per aver abusato della sua posizione dominante, imponendo restrizioni contrattuali anticoncorrenziali ai produttori di dispositivi mobili nonché agli operatori di reti mobili, per alcuni sin dal 1° gennaio 2011. Le restrizioni esaminate sono di tre ordini:

  • in primo luogo, quelle inserite negli «accordi di distribuzione», che impongono ai produttori di dispositivi mobili di preinstallare le applicazioni di ricerca generica (Google Search) e di navigazione (Chrome) per poter ottenere da Google una licenza operativa per il suo portale di vendita (Play Store);
  • in secondo luogo, quelle inserite negli «accordi antiframmentazione», che condizionano la concessione delle licenze operative necessarie alla preinstallazione delle applicazioni Google Search e Play Store da parte dei produttori di dispositivi mobili all’impegno di questi ultimi ad astenersi dal vendere dispositivi equipaggiati con versioni del sistema operativo Android senza l’approvazione di Google;
  • in terzo luogo, quelle inserite negli «accordi di ripartizione del fatturato», che subordinano il rimborso di una parte degli introiti pubblicitari di Google ai produttori di dispositivi mobili e agli operatori di reti mobili interessati all’impegno, da parte di questi ultimi, a rinunciare alla preinstallazione di un servizio di ricerca generica concorrente su un portafoglio predeterminato di dispositivi.

 

Secondo la Commissione, queste restrizioni avevano tutte lo scopo di proteggere e rafforzare la posizione dominante di Google in materia di servizi di ricerca generica e, pertanto, gli introiti ottenuti da quest’impresa mediante gli annunci pubblicitari collegati a queste ricerche. L’obiettivo comune perseguito dalle restrizioni controverse e la loro interdipendenza hanno indotto pertanto la Commissione a qualificarle come infrazione unica e continuata all’articolo 102 TFUE e all’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE).

Di conseguenza, la Commissione ha inflitto a Google un’ammenda di circa EUR 4,343 miliardi, ossia l’ammenda più importante mai inflitta in Europa da un’autorità di vigilanza sulla concorrenza.

Il ricorso proposto da Google è essenzialmente respinto dal Tribunale, il quale si limita ad annullare la decisione soltanto nella parte in cui essa constata che i summenzionati accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio costituirebbero, di per se stessi, un abuso. Tenuto conto delle circostanze specifiche del caso, il Tribunale giudica parimenti adeguato, in applicazione della sua competenza estesa al merito, di determinare l’importo dell’ammenda inflitta a Google come pari a EUR 4,125 miliardi.

Valutazione del Tribunale

In un primo tempo, il Tribunale esamina il motivo relativo a errori di valutazione nella definizione dei mercati rilevanti e nella conseguente valutazione della posizione dominante di Google su alcuni di tali mercati. In tale contesto, il Tribunale sottolinea di essere chiamato essenzialmente a verificare, in considerazione degli argomenti delle parti e del ragionamento illustrato nella decisione controversa, se l’esercizio, da parte di Google, del suo potere sui mercati rilevanti consentisse effettivamente di agire in misura degna di nota, indipendentemente dai vari fattori che avrebbero potuto condizionare il suo comportamento.

Nel caso di specie, il Tribunale rileva anzitutto che la Commissione ha individuato, in una prima fase, quattro tipi di mercati rilevanti, ossia: il primo, il mercato mondiale (Cina esclusa) della concessione di licenze per sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti; il secondo, il mercato mondiale (Cina esclusa) dei portali di vendita di applicazioni per Android; il terzo, i vari mercati nazionali, all’interno dello SEE, di fornitura di servizi di ricerca generica; e, il quarto, il mercato mondiale dei navigatori Internet per dispositivi mobili non specifici di un sistema operativo. In una seconda fase, la Commissione ha concluso nel senso della detenzione, da parte di Google, di una posizione dominante sui primi tre mercati. Il Tribunale osserva tuttavia che la Commissione ha debitamente evidenziato, nella sua presentazione dei vari mercati rilevanti, la loro complementarità, presentandoli come interconnessi, in particolare, in considerazione della strategia globale attuata da Google per promuovere il proprio motore di ricerca, integrandolo in un «ecosistema».

Chiamato, in particolare, a pronunciarsi sulla definizione del perimetro del mercato della concessione di licenze per sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti e sulla conseguente valutazione della posizione in esso occupata da Google, il Tribunale constata anzitutto che la Commissione sfugge alle censure di Google quando sostiene che i sistemi operativi esclusivamente utilizzati da programmatori verticalmente integrati, quali l’iOS di Apple o Blackberry, detti «senza licenza», non fanno parte del medesimo mercato, dato che i produttori di dispositivi mobili terzi non possono ottenerne la licenza. La Commissione non ha commesso errori nemmeno constatando anche che la posizione dominante di Google su questo mercato non era rimessa in discussione dal vincolo concorrenziale indiretto esercitato su questo stesso mercato dal sistema operativo senza licenza proposto da Apple.

Pertanto, la Commissione ha concluso giustamente che la natura aperta della licenza operativa del codice sorgente Android non costituiva un vincolo concorrenziale sufficiente per controbilanciare la posizione dominante in questione.

In un secondo tempo, il Tribunale esamina i diversi motivi relativi alla valutazione errata del carattere abusivo delle restrizioni controverse.

In primo luogo, per quanto concerne le condizioni di preinstallazione imposte ai produttori di dispositivi mobili [4], la Commissione le ha giudicate abusive distinguendo, da un lato, il pacchetto delle applicazioni Google Search e Play Store dal pacchetto del navigatore Chrome e delle summenzionate applicazioni, e considerando, dall’altro, che questi pacchetti avevano ristretto la concorrenza nel corso dell’infrazione, senza che Google abbia potuto dedurre l’esistenza di nessuna giustificazione oggettiva.

A questo proposito, il Tribunale rileva che, per suffragare l’esistenza di un importante vantaggio concorrenziale conferito dalle condizioni di preinstallazione controverse, la Commissione ha ritenuto che una siffatta preinstallazione potesse generare una «tendenza allo statu quo», derivante dall’inclinazione degli utenti a servirsi delle applicazioni di ricerca e navigazione a loro disposizione e idoneo ad incrementare in modo significativo e duraturo l’uso del servizio in questione, senza che questo vantaggio possa essere compensato dei concorrenti di Google. Secondo il Tribunale, l’analisi esposta dalla Commissione a tal riguardo sfugge a tutte le critiche formulate da Google.

Passando poi alle censure riguardanti la conclusione secondo la quale i mezzi a disposizione dei concorrenti di Google non permettevano loro di controbilanciare il vantaggio concorrenziale ricavato da Google dalle condizioni di preinstallazione in questione, il Tribunale osserva che, benché tali condizioni non vietino la preinstallazione di applicazioni concorrenti, ciò nondimeno un siffatto divieto è previsto, per i dispositivi interessati, dagli accordi di ripartizione del fatturato – che si tratti sia degli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio, sia degli accordi di ripartizione del fatturato per dispositivi, che li hanno sostituiti -, ossia per più del 50% dei dispositivi Google Android venduti dal 2011 al 2016, circostanza della quale la Commissione ha potuto tener conto a titolo degli effetti combinati delle restrizioni in questione. Inoltre, la Commissione ha potuto validamente basarsi anche sull’osservazione della situazione reale per suffragare le sue conclusioni constatando, a tale titolo, il ricorso in pratica limitato alla preinstallazione di applicazioni concorrenti, al loro caricamento a distanza o all’accesso ai servizi di ricerca concorrenti per il tramite di navigatori. Infine, giudicando anche vane le critiche di Google nei confronti delle considerazioni che hanno indotto la Commissione a giudicare assente qualsiasi giustificazione oggettiva per i pacchetti presi in considerazione, il Tribunale respinge integralmente il motivo relativo alla valutazione errata del carattere abusivo delle condizioni di preinstallazione.

In secondo luogo, per quanto concerne la valutazione della condizione di preinstallazione unica inclusa negli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio, il Tribunale giudica anzitutto che la Commissione aveva ragione nel considerare gli accordi controversi come costitutivi di accordi di esclusiva, in quanto i pagamenti previsti erano subordinati all’assenza di una preinstallazione di servizi di ricerca generica concorrenti sul portafoglio di prodotti interessati.

Ciò premesso, tenuto conto del fatto che, per giudicare abusivo il loro carattere, la Commissione  ha ritenuto che  tali accordi fossero idonei a incitare i produttori di dispositivi mobili nonché gli operatori di reti mobili interessati a non installare servizi del genere concorrenti, ad essa spettava, in base alla giurisprudenza applicabile a questo tipo di pratiche [5], procedere a un’analisi della loro capacità di restringere la concorrenza basata sui meriti alla luce dell’insieme delle circostanze rilevanti, fra le quali figurano il livello di copertura del mercato da parte della pratica  contestata nonché la sua capacità specifica di eliminare concorrenti almeno altrettanto efficaci.

L’analisi illustrata dalla Commissione a tal fine si basava essenzialmente su due elementi ossia, da un lato, l’esame dell’ampiezza della pratica contestata e, dall’altro, i risultati del test detto «del concorrente altrettanto efficace» [6] , che essa ha applicato. Orbene, relativamente al fatto che la Commissione ha ritenuto, a titolo del primo elemento, che gli accordi in questione coprissero una «parte significativa» dei mercati nazionali dei servizi di ricerca generica, a prescindere dal tipo di dispositivo impiegato, il Tribunale giudica che tale constatazione non è corroborata dagli elementi dedotti dalla Commissione nella decisione controversa. Un’analoga insufficienza vizia inoltre una delle premesse del test AEC, ossia la parte delle domande di ricerca contestabile da un concorrente ipoteticamente almeno altrettanto efficace la cui applicazione sarebbe stata preinstallata accanto a Google Search. Il Tribunale constata parimenti diversi errori di ragionamento concernenti la valutazione delle variabili essenziali del test AEC eseguito dalla Commissione ossia, anzitutto, la valutazione dei costi attribuibili a un siffatto concorrente; inoltre, la valutazione della sua capacità di ottenere la preistallazione della sua applicazione; e, infine, la valutazione degli introiti ricavabili in funzione della vetustà dei dispositivi mobili in circolazione. Da ciò consegue che il test AEC eseguito dalla Commissione non può corroborare la constatazione di un abuso derivante, di per sé, dagli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio, di modo che il Tribunale accoglie il motivo corrispondente.

In terzo luogo, per quanto concerne la valutazione delle restrizioni inserite negli accordi antiframmentazione, il Tribunale osserva preliminarmente che la Commissione considera abusiva una pratica siffatta, in quanto essa mira a ostacolare lo sviluppo e la presenza sul mercato di dispositivi funzionanti con sistemi operativi derivati da Android [7] incompatibili, senza per ciò solo negare a Google il diritto di imporre requisiti di compatibilità riguardanti i soli dispositivi sui quali le sue applicazioni sono installate. Dopo aver constatato l’esistenza effettiva della pratica in questione, il Tribunale giudica inoltre che la Commissione aveva ragione nel riconoscere la capacità dei sistemi operativi derivati da Android incompatibili di esercitare una pressione concorrenziale su Google. Ciò premesso, alla luce degli elementi illustrati dalla Commissione, idonei a dimostrare l’ostacolo allo sviluppo e alla vendita di prodotti concorrenti sul mercato delle concessioni di licenze per sistemi operativi, quest’ultima poteva ben ritenere, secondo il Tribunale, che la pratica in questione avesse condotto al rafforzamento della posizione dominante di Google sul mercato dei servizi di ricerca generica, rappresentando nel contempo un freno all’innovazione, in quanto essa aveva limitato la varietà delle offerte a disposizione degli utenti.

In un terzo tempo, il Tribunale esamina il motivo relativo alla violazione dei diritti della difesa, con il quale Google intende far accertare, da un lato, una violazione del suo diritto di consultazione del fascicolo e, dall’altro, una violazione del suo diritto di essere ascoltata.

Esaminando, in primo luogo, la presunta violazione del diritto di consultazione del fascicolo, il Tribunale precisa preliminarmente che le censure di Google a tale titolo vertono sul contenuto di un insieme di note trasmesse dalla Commissione nel febbraio 2018 in merito a riunioni organizzate da quest’ultima con terzi per tutta la durata della sua indagine. Poiché dette riunioni erano costituite tutte da incontri concernenti la raccolta di informazioni relative all’oggetto dell’indagine, ai sensi dell’articolo 19 del regolamento n. 1/2003 [8], incombeva, di conseguenza, alla Commissione di assicurare una registrazione idonea a consentire all’impresa in questione, al momento opportuno, di averne conoscenza e di esercitare i propri diritti della difesa. Nel caso di specie, il Tribunale constata la violazione degli obblighi così ricordati a causa, da un lato, del tempo trascorso tra lo svolgimento degli incontri e la trasmissione delle note ad essi relative e, dall’altro, del carattere sommario di queste ultime. Per quanto concerne le conseguenze da trarre da questa irregolarità procedurale, il Tribunale ricorda nondimeno che, secondo la giurisprudenza, una violazione dei diritti della difesa può essere constatata, in presenza di irregolarità di tal genere, solo qualora l’impresa interessata dimostri che, in mancanza di essa, avrebbe potuto predisporre meglio la propria difesa. Nel caso di specie, il Tribunale giudica però che questa dimostrazione non si ricava dagli elementi che gli sono stati comunicati o dagli argomenti che gli sono stati esposti a tal riguardo.

Passando, in secondo luogo, alla presunta violazione del diritto di essere ascoltata, il Tribunale osserva che le censure di Google a questo titolo costituiscono il lato procedurale delle censure dirette a contestare la fondatezza dell’accertamento della natura abusiva di determinati accordi di ripartizione del fatturato, in quanto esse mirano a censurare il diniego di un’audizione relativa al test AEC eseguito in tale contesto. Orbene, dato che la Commissione ha opposto tale diniego a Google benché essa le avesse inviato due lettere di esposizione dei fatti per integrare sostanzialmente il contenuto e la portata della linea di condotta inizialmente illustrata nella comunicazione degli addebiti a tale riguardo, senza pertanto adottare, come avrebbe dovuto, una comunicazione supplementare degli addebiti seguita da un’audizione, il Tribunale giudica che la Commissione ha violato i diritti della difesa di Google, privando così quest’ultima dell’opportunità di garantire meglio la propria difesa sviluppando i propri commenti nel corso di un’audizione. Il Tribunale aggiunge che, nel caso di specie, l’interesse a un’audizione risulta tanto più rilevante in considerazione delle insufficienze precedentemente rilevate in sede di esecuzione del test AEC da parte della Commissione. Di conseguenza, l’accertamento della natura abusiva degli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio dev’essere annullato anche su tale base.

Infine, chiamato a procedere, nell’esercizio della sua competenza estesa al merito, a una valutazione autonoma dell’importo dell’ammenda, il Tribunale precisa preliminarmente che, benché la decisione controversa debba essere dunque parzialmente annullata, nella parte in cui essa considera di per sé abusivi gli accordi di ripartizione dei redditi per portafoglio, quest’annullamento parziale non incide per ciò solo sulla validità globale dell’accertamento dell’infrazione compiuto, nella decisione controversa, in considerazione degli effetti di eliminazione risultanti dalle altre pratiche abusive attuate da Google nel corso dell’infrazione.

Mediante una valutazione adeguata dell’insieme delle circostanze relative alla sanzione, il Tribunale giudica che occorre riformare la decisione controversa, disponendo che l’importo dell’ammenda da infliggere a Google per l’infrazione commessa dev’essere pari a EUR 4,125 miliardi. A tal fine, analogamente alla Commissione, il Tribunale ritiene opportuno tener conto del carattere intenzionale dell’esecuzione delle pratiche illecite nonché del valore delle vendite pertinenti realizzate da Google durante l’ultimo anno della sua partecipazione completa all’infrazione. Viceversa, per quanto concerne la considerazione della gravità e della durata dell’infrazione, il Tribunale ritiene opportuno, per le ragioni esposte nella sentenza, tener conto dell’evoluzione nel tempo dei diversi aspetti dell’infrazione e della complementarità delle pratiche in questione al fine di valutare l’incidenza degli effetti di eliminazione correttamente accertati dalla Commissione nella decisione controversa.

[1] Nel testo, «Google» indica congiuntamente la società Google LLC, già Google Inc., nonché la sua società madre, Alphabet, Inc.

[2] Nel giugno 2017, la Commissione aveva già inflitto a Google un’ammenda pari a EUR 2,42 miliardi per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato dei motori di ricerca, attribuendo un vantaggio illecito al proprio servizio di confronto dei prezzi. Questa decisione è stata convalidata essenzialmente dal Tribunale con sentenza del 10 novembre 2021, Google e Alphabet/Commissione (Google Shopping), T-612/17 (v. anche il comunicato stampa n. 197/21). L’impugnazione proposta da Google avverso tale sentenza è attualmente pendente dinanzi alla Corte (C-48/22 P).

[3] Decisione C(2018) 4761 final della Commissione, del 18 luglio 2018, relativa a un procedimento a norma dell’articolo 102 TFUE e dell’articolo 54 dell’accordo SEE (caso AT.40099 – Google Android).

[4] In considerazione delle somiglianze tra le cause, il Tribunale fa riferimento, a tal riguardo, alla sentenza del 17 settembre 2007, Microsoft/Commissione, T‑201/04 (v. anche il comunicato stampa n. 63/07), menzionata dalla Commissione nella decisione controversa.

[5] V. sentenza del 6 settembre 2017, Intel/Commissione (C-413/14 P (v. anche il comunicato stampa n. 90/17).

 

[6] In prosieguo: il «test AEC», secondo la sua denominazione in lingua inglese (As Efficient Competitor Test).

[7] Si tratta, nel caso di specie, di sistemi operativi sviluppati da terzi a partire dal codice sorgente Android divulgato da Google mediante concessione di una licenza libera per sistemi operativi, il quale contiene elementi basilari di un siffatto sistema, ma non le applicazioni e servizi Android di cui Google è proprietaria. In tale contesto, gli accordi antiframmentazione in questione definivano un criterio di riferimento di compatibilità minima per l’applicazione del codice sorgente Android.

[8] Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli [101 e 102 TFUE] (GU 2003, L 1, pag. 1).