Sanità: O i figli o la carriera. A quanto ancora deve rinunciare un’oncologa nel 2022?

Vuoi fare carriera? Non andare in maternità. Una provocazione che racchiude una grande verità, un po’ in tutti i settori lavorativi.
Anche in ambito medico, come racconta Nicla La Verde, Direttore Unità Operativa Complessa Oncologia, Ospedale Luigi Sacco di Milano e tesoriere di Women for Oncology Italy. “In Italia c’è una legislazione precisa che non solo difende il diritto di maternità, ma prevede anche la sostituzione di maternità. Significa che l’azienda può assumere un lavoratore in sostituzione della dipendente in maternità, con un contratto la cui durata è strettamente connessa a quella del congedo. Se dal punto di vista legislativo molto è stato fatto per la tutela dei diritti lavorativi della professionista che vuole vivere la sua maternità, dal punto di vista pratico la questione è più complessa.

 

Per una donna medico che lavora in un determinato reparto con dei turni precisi, che tiene molto alla sua carriera e al rapporto con i suoi pazienti, a conti fatti, la maternità diventa una scelta difficoltosa, nel momento in cui si troverà nella condizione di dover rendere conto della sua scelta ai colleghi che, in qualche modo, si sobbarcheranno del suo lavoro. Questo perché i meccanismi di sollievo, che favoriscono la prosecuzione del lavoro, non vengono implementati. Non per cattiva volontà dei singoli, ma per difficoltà pratiche e contingenti che si vengono a creare. La sostituzione di maternità, per fare un esempio concreto, è in parte a carico dell’azienda sanitaria. E’ chiaro che se quell’azienda ha problematiche economiche, non riuscirà a retribuire, così come la legge vuole, due persone. Questo è il primo problema. Poi c’è da sottolineare che la pandemia ha messo bene in evidenza che siamo in carenza di medici. Quindi anche le figure professionali che sostituiscono potenzialmente la donna che è via per la maternità, sono davvero poche. Come possiamo pretendere che un professionista, mi riferisco nel mio caso a un oncologo, venga a lavorare in un luogo per soli 5 mesi? La nostra non è una professione stagionale: il cancro è una malattia di tutto l’anno, difficile trovare qualcuno che venga a lavorare per un tempo così limitato. Anche dal punto di vista pratico, occorre trovare delle soluzioni in questo senso.

E poi c’è il dopo: la donna medico, che lavora 8-10 ore, per non dire 12 durante i turni di guardia, deve poi tornare a vivere in quell’ambiente e si capisce che le rimarrà particolarmente difficile, se tale ambiente è stato compromesso dal fatto che i colleghi si sono dovuti fare carico anche del suo lavoro durante il periodo di maternità. Non sottolineo la difficoltà di quando 2 o 3 donne contemporaneamente vivono la maternità in una situazione simile: mettono completamente in croce tutta una struttura, per motivi che vengono discussi a diverso livello. In questo senso, anche come Women for Oncology Italy, stiamo lavorando molto per migliorare le leggi, promuovendo congressi a Montecitorio con tavoli politici. Ma poi servono anche delle soluzioni dall’interno, che possono essere implementate e attuate nelle singole strutture e dai singoli direttori che, con molta buona volontà, mettono in atto meccanismi favorevoli per cui ci si comporta reciprocamente nel tempo di assenza di quella persona.

Un programma che, agli occhi esterni, sembra ineluttabile: ovvero che le donne dello stesso reparto si alternassero nel fare figli. Allo stesso tempo però mi chiedo: a quanto ancora deve rinunciare un’oncologa nel 2022? Rinunciare a un figlio? Rinunciare alla carriera? Sono cose molto grosse che sul piano della libertà, dell’espressione umana e della professionalità mi fanno ritornare a tempi ciechi di secoli addietro