Povertà, disuguaglianze e fragilità in Italia

Calendar with euro bills.

Marginalità, disuguaglianza, fragilità: sono i diversi volti che tracciano l’identikit della povertà, vecchia e nuova. Attraverso lo studio “Povertà, disuguaglianze e fragilità in Italia. Riflessioni per il nuovo Parlamento”, Eurispes e Universitas Mercatorum propongono una serie di riflessioni sul tema dell’impoverimento che ha coinvolto e, spesso, travolto, ampie fasce della popolazione, in particolare, del ceto medio: un tema che sarà centrale nel dibattito dei prossimi mesi.

Il testo racchiude approfondimenti in grado di mettere a fuoco la condizione dell’economia reale delle famiglie, di saggiare la sensibilità dei cittadini, anche attraverso la raccolta e l’analisi dei “trend storici” elaborati da Eurispes sulla base delle ricerche e delle indagini svolte negli ultimi anni.

Lo studio contiene un’analisi accurata delle diverse povertà che emergono nel Paese, che non sono riconducibili esclusivamente alla dimensione del reddito, ma che hanno uno stretto rapporto con il livello dei servizi erogati dal pubblico, con le differenti situazioni infrastrutturali, con il degrado più o meno marcato dell’area della formazione e dell’educazione.

Più che dare risposte, Eurispes e Universitas Mercatorum si pongono come obiettivo quello di contribuire al dibattito pubblico, proponendo uno strumento di lavoro ai protagonisti di questa legislatura.

Per sondare il concetto di povertà l’indagine “Povertà, disuguaglianza e fragilità in Italia. Riflessioni per il nuovo Parlamento”, ha preso in considerazione alcuni fenomeni “indicatori” del disagio, ampiamente sondati nel corso di numerose ricerche svolte negli ultimi anni. Tra questi, la diffusione del lavoro sommerso, il precariato, le difficoltà nel sostenere le spese mediche, l’usura.

Il lavoro sommerso come strategia di sopravvivenza

Approfondite ricerche dell’Eurispes hanno più volte analizzato le dinamiche dell’economia sommersa in Italia e in Europa, mettendo in luce un dato allarmante quanto tristemente veritiero. L’economia sommersa può essere definita una sorta di “camera iperbarica” che ha permesso a numerosi soggetti produttivi di riprendere fiato e sopravvivere nel corso del lungo periodo di crisi.

L’Eurispes ha calcolato che l’economia sommersa nel nostro Paese abbia generato, a partire dal 2007, almeno 549 miliardi di euro l’anno. Un fenomeno che coinvolge tutti i settori, dall’agricoltura ai servizi, all’industria, nelle forme del lavoro nero continuativo, del doppio lavoro, del lavoro nero saltuario.

Secondo l’Eurispes, il 54,5% dell’economia non osservata è rappresentato dal lavoro sommerso, il 28,4% dall’evasione fiscale da parte di aziende e imprese, il 16,9% dalla cosiddetta economia informale.

Per quanto riguarda la parte più consistente dell’economia non osservata, relativa al flusso di denaro generato dal lavoro sommerso, le stime si attestano a 300 miliardi di euro.

Secondo le stime dell’Istituto, sono almeno 6 milioni i doppiolavoristi tra i dipendenti; 600mila gli immigrati con regolare permesso di soggiorno che lavorano in nero. Sfuggono ai calcoli ufficiali anche coloro che esercitano attività in nero, anche a tempo pieno, ma che dispongono di un reddito che esclude attività di lavoro retribuito: parliamo in pratica delle persone che godono di pensioni di invalidità e di vecchiaia. In Italia, su un totale di 16,5 milioni di pensionati, circa 4,5 milioni hanno un’età compresa tra i 40 e i 64 anni. È plausibile che almeno un terzo di essi lavori in nero. A questo terzo si aggiungono altri 820mila pensionati tra ultra-sessantacinquenni ancora attivi, che vanno a formare, secondo le stime Eurispes, un piccolo esercito di circa 2.320.000 pensionati che producono lavoro sommerso.

Altra categoria che sfugge ai dati ufficiali è quella delle casalinghe, circa 8,5 milioni. Il 18,8% di esse svolgerebbe lavori che vanno ad alimentare il sommerso.

L’Istat rileva inoltre 1.400.000 persone in cerca di occupazione: di queste, il 50% lavorerebbe totalmente in nero.

A queste categorie, vanno aggiunti i lavoratori indipendenti, i liberi professionisti, i collaboratori a progetto e i soci di cooperative. Difficile immaginare che la totalità di loro paghi le tasse per la totalità degli introiti.

Secondo le stime Eurispes inoltre, ai 300 miliardi derivanti dal lavoro sommerso, si devono aggiungere 156 miliardi di euro di sommerso generati dalle imprese italiane. È stato possibile stimare questo dato basandosi sulle operazioni condotte, a partire dal 2007, dalla Guardia di Finanza: su oltre 700mila controlli effettuati, sono stati riscontrati 27 miliardi di euro di base imponibile sottratta al fisco.

L’Italia “incravattata”. L’usura come indicatore di sofferenza

L’usura è un fenomeno diffuso in tutta Italia, anche se risulta più marcato nel Mezzogiorno, come indica il numero delle denunce presentate all’Autorità giudiziaria che, tuttavia, non dà una misura attendibile della reale entità del fenomeno.

La maggior parte dei casi continua a rimanere sommersa e negli ultimi anni il numero delle denunce risulta persino in diminuzione, nonostante sia in aumento il numero di denunce per estorsione. Appare emblematico che, laddove la presenza del crimine organizzato è particolarmente radicata nel territorio, il numero delle denunce segue un trend di decremento.

La diffusione del fenomeno dell’usura costituisce un indicatore di sofferenza delle famiglie e delle imprese italiane.

Si è calcolato, nel solo 2015, che circa il 12% degli italiani (su un totale di 24,6 milioni di famiglie) si è rivolto nel corso dell’anno a soggetti privati per ottenere un prestito, non potendolo avere dal sistema bancario.

Ipotizzando che il prestito ammonti, in media, a 10mila euro, si ottiene la cifra di 30 miliardi di euro per 3 milioni di nuclei familiari in difficoltà.

Passando alle imprese, per il settore agricolo si è stimato che il 10% delle 750mila aziende agricole italiane abbia avuto la necessità di richiedere denaro ad usurai, e che la somma media richiesta ammonti a 30mila euro. Si arriverebbe così a 2.250.000 euro.

Per quanto riguarda le aziende del commercio e dei servizi (3,3 mln attive), si stima approssimando verso il basso, che una su 10 si sia rivolta agli usurai. Stimando una cifra media di 15mila euro in prestito, si arriva a circa 5 miliardi di euro. Il capitale prestato si attesterebbe così su 37,25 miliardi.

Considerando un interesse medio sui prestiti del 10% al mese, ossia del 120% annuo, si arriva a calcolare un capitale restituito che aggiunge altri 44,7 miliardi di interesse ai 37,25 prestati. In conclusione, il business dell’usura consiste in almeno 81,95 miliardi di euro.

La lenta risalita. Il trend storico elaborato dall’Eurispes

Nonostante il quadro, sfaccettato ed eterogeneo sia dal punto di vista della territorialità sia da quello demografico, faccia percepire una realtà ancora molto difficile e spesso caratterizzata da un marcato pessimismo, i diversi segnali inducono a pensare ad un Paese in faticosa risalita.

L’Eurispes ha elaborato alcuni trend che, attraverso i dati degli ultimi anni, traccia l’evoluzione della percezione della popolazione italiana nei confronti della propria condizione economica e del proprio potere d’acquisto.

Cresce l’ottimismo: la serie storica dal 2004 al 2018

Nel gennaio 2018 più di un terzo degli intervistati ha ritenuto che la situazione economica del Paese sia rimasta stabile rispetto all’anno precedente. Un dato in netta crescita rispetto allo stesso periodo del 2017: dal 22,2% al 38,9% (+16,7%); e in costante aumento dal 2012, quando si registrò il valore più basso del 3,9%. Nel 2004 la percentuale di chi riteneva che la situazione fosse stabile si attestava al 14,4%.

Un altro risultato che influisce positivamente nel disegnare un’economia in risalita è la riduzione del numero delle persone che percepiscono una condizione gravemente peggiorato rispetto all’anno precedente: il 15,3%, ovvero -6,5% rispetto al 2017, addirittura il 51,7 rispetto al 2012, quando si raggiunse il picco più alto di pessimismo. Quell’anno, il peggiore dal 2004, furono quasi 7 su 10 a dipingere una situazione in netto peggioramento.

A confermare la tendenza positiva dell’ultimo periodo, si registra nel 2018 un aumento del numero di chi ritiene che l’economia italiana sia nettamente o lievemente migliorata: rispettivamente il 3,8% (+1,4% rispetto al 2017) e 12,8% (+1,8% rispetto al 2017). Si tratta del risultato di gran lunga migliore da 14 anni a questa parte.

 

I consumi degli italiani dal 2010 al 2017

In lento miglioramento anche la situazione dei consumi: benché nel 2017 gli italiani abbiano continuato a risparmiare su alcune spese rispetto al 2016, la serie storica elaborata dall’Eurispes dal 2010 al 2017 dimostra che stiamo lentamente tornando alla situazione di 7 anni fa.

In particolare, nel 2017 l’80,6% ha dichiarato di aver acquistato più prodotti in saldo, l’1% in meno rispetto al 2016 e quasi 8 punti in meno rispetto al 2013, l’anno “horribilis” dei consumi. Un dato però ancora lontano da quel 68,3% del 2010.

Per quanto riguarda l’acquisto di generi alimentari, il 69,7% ha confessato di cambiare marca di un prodotto se più conveniente: un dato leggermente in risalita rispetto al 2016 (68%), ma nettamente più basso di quello registrato nel 2013 (84,8%) e addirittura inferiore rispetto al 2010 (69,9%).

Dall’indagine emerge che nel 2017, il 70,9% ha ridotto le spese per pranzi e cene fuori casa: il 4,7% in più rispetto al 2016, quasi 16 punti in meno rispetto al 2013 e un punto e mezzo in meno rispetto al 2010.

Altro dato significativo, quello relativo alla spesa per viaggi e vacanze: il 68,7% ha dichiarato nel 2017 di aver ridotto il budget (+1,6% rispetto al 2016). Nel 2013 era l’84,8% a dichiarare di aver rinunciato a viaggiare, mentre nel 2010 questa percentuale si attestava al 65,2%.

Non è tutto oro ciò che luccica: la società dei tre terzi

Italia di nuovo in rotta: questo sembrano raccontare i diversi indizi che arrivano dai numeri e dalle statistiche. Eppure, a guardar bene, non è propriamente così. A minare almeno in parte la visione sostanzialmente ottimista del futuro prossimo è la costatazione che gli “esclusi” dal banchetto del benessere sono negli ultimi anni aumentati, e che i ceti medi hanno visto erodere la loro condizione storicamente più accettabile, frutto dell’evoluzione dei welfare europei del secondo dopoguerra.

Spiega il Presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara: «Si può oggi parlare di una società dei “tre terzi”: un terzo super garantito da livelli di reddito di gran lunga più elevati di quelli sperimentati nel recente passato, non solo in assoluto, ma anche se confrontati con la media e soprattutto con i redditi più bassi. Al contrario, sopravvive, a stento, il terzo degli esclusi, che non solo non si è ridotto ma che ha visto svanire la propria speranza di riscatto e confermata la condanna all’esclusione. Ma la novità degli ultimi anni è rappresentata oggi dal terzo intermedio che si colloca fra gli altri due, avendo caratteristiche distinte dagli uni e dagli altri. Non gode di particolari privilegi e raccoglie tutti coloro che pensavano che la loro capacità di lavoro, la loro professionalità ed il loro spirito di iniziativa e di intrapresa potessero essere sufficienti a mantenerli o a farli entrare nei due terzi dei fortunati di galbraithiana memoria. Fra di loro possiamo trovare gli elementi più attivi e più dinamici della società civile. Ma essi sono diventati tutti a rischio di povertà. Pensiamo ad un piccolo o anche medio imprenditore che, per difficoltà economiche e certamente momentanee, non trova credito presso il sistema bancario e cade nella rete degli usurai; pensiamo, ed è piuttosto frequente, ad una famiglia di medio reddito che veda entrare in casa, attraverso uno dei suoi componenti, il problema della tossicodipendenza; pensiamo ad una lunga malattia di un lavoratore autonomo».

 

Spiega Alberto Baldazzi, curatore dell’indagine: «Una parziale spiegazione dell’aumento di persone in difficoltà discende dalla considerazione dell’assorbimento nel ceto medio di quote non indifferenti di quella che una volta era la working class. Questa sotto sezione del ceto medio non ha fatto in tempo a creare rilevanti riserve e valori patrimoniali, e la sua condizione è legata principalmente alla stabilità del lavoro».

Esiste poi la questione di una sempre più iniqua distribuzione che fa sì che i pochi ricchi (l’1%) siano sempre più ricchi e beneficino di buona parte dei dividendi dello sviluppo, mentre la società del 99% resta a guardare.

Continua Alberto Baldazzi: «I dati più recenti dimostrano che proprio in Italia gli anni della crisi hanno squilibrato, più che in altri paesi, il quadro della distribuzione della ricchezza e, conseguentemente, ampliato il rischio povertà. Esiste, dunque, una specificità tutta italiana, che ha fatto sì che le disuguaglianze si siano acuite, la qual cosa inevitabilmente contrasta l’ottimismo di chi brinda ai dati in ripresa, e introduce la macabra prospettiva di uno sviluppo senza equità».