La plastica è ovunque. Nei mari, nei fiumi, nell’aria, nel nostro sangue. È diventata parte del paesaggio quotidiano e una minaccia invisibile e persistente. Ma non è solo un rifiuto: è un simbolo. Di come produciamo, consumiamo, smaltiamo. Di un sistema che corre veloce e lascia dietro di sé scie di imballaggi, fibre sintetiche, microgranuli.
La plastica è al tempo stesso infrastruttura e minaccia. Per le economie emergenti, rappresenta una leva di sviluppo industriale. Per molti paesi, la plastica è anche sopravvivenza. È industria, lavoro, stabilità. Per altri stati è una fonte di devastazione ecologica. Non si può semplicemente vietarla. Bisogna ripensarla. Ma ripensare qualcosa che tiene in piedi interi settori economici richiede tempo, fiducia, alleanze.
Per questo, nel 2022, l’Assemblea delle Nazioni Unite aveva deciso di avviare un processo per arrivare a un accordo globale. L’obiettivo era ambizioso: porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040. Ma già allora, dietro le dichiarazioni solenni, si intravedevano le prime crepe.
Oggi, i negoziati delle Nazioni Unite, per un trattato generale contro l’inquinamento da plastica, si sono fermati.
Il nodo centrale non è la mancanza di volontà, ma l’assenza di una definizione condivisa di “fine dell’inquinamento da plastica”. Per alcuni paesi, significa migliorare la gestione dei rifiuti e incentivare il riciclo. Per altri, implica ridurre drasticamente la produzione di polimeri. Questa divergenza semantica si è tradotta in uno stallo geopolitico, dove interessi economici e vulnerabilità ambientali si scontrano senza mediazione.
Ma più che un fallimento, questo momento potrebbe rappresentare una pausa necessaria per ripensare tutto: non solo il contenuto del trattato, ma il modo in cui lo stiamo cercando di costruire.
Uno dei problemi principali è che non si parla la stessa lingua. Non nel senso grammaticale, ma nel senso politico. “Porre fine all’inquinamento da plastica” può significare cose molto diverse a seconda di chi lo dice. Per un paese produttore, può voler dire investire in tecnologie di smaltimento. Per altri, può voler dire fermare le esportazioni di rifiuti e vietare certi tipi di imballaggi. Senza una definizione condivisa, è difficile costruire un accordo solido.
Inoltre, il processo negoziale ha seguito una tempistica troppo rigida. Si è voluto arrivare a un testo definitivo in meno di due anni, su un tema che tocca l’industria, il commercio, la salute, l’ambiente e la giustizia sociale. Troppo poco tempo per un problema così vasto.
Il Protocollo di Montréal (1987) sulla protezione della fascia di ozono ha dimostrato che è possibile affrontare una minaccia ambientale globale con successo, attraverso un trattato vincolante, graduale e universalmente ratificato. La crisi della plastica, pur diversa per natura, presenta analogie strutturali che rendono quel modello replicabile con le dovute modifiche.
Occorre, classificare le plastiche più dannose (es. polimeri vergini, microplastiche, additivi tossici), distinguere tra usi essenziali e superflui (es. dispositivi medici versus imballaggi monouso), stabilire una lista dinamica di materiali da eliminare o sostituire, definire un calendario di rimozione graduale, finanziare infrastrutture di raccolta e riciclo e sostenere la ricerca su materiali alternativi.
Il Trattato globale sulla plastica non è morto. È in pausa. E come ogni pausa, può essere un’occasione per riflettere, correggere, rilanciare.
Non sarà facile. Ma è necessario.
Primo Mastrantoni, presidente comitato tecnico-scientifico di Aduc
