GIORNATA MONDIALE DELL’AIUTO UMANITARIO

Il racconto della pandemia degli operatori di Azione contro la Fame impegnati in prima linea: “Reinventare il concetto chiave, stravolto i piani per continuare a dare cibo ai più vulnerabili”…

“Fermare, immediatamente, il contagio in tutte le comunità e dare cibo a chi non può guadagnarsi da vivere a causa delle misure di contenimento”. Il fil rouge dell’impegno di Azione contro la Fame, espresso in questi termini dal direttore generale dell’organizzazione, Simone Garroni, in occasione della Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, è stato chiaro sin dall’inizio dell’emergenza-coronavirus. I 6.000 operatori umanitari, attivi nei 50 Paesi in cui l’organizzazione è presente, lo hanno fatto proprio in questi mesi, pur confrontandosi con i provvedimenti promossi, dal 15 marzo, in un gran numero di aree del mondo.

“Non riuscire a raggiungere le comunità durante le due settimane di chiusura assoluta è stato, di gran lunga, l’aspetto più difficile: non ci era mai successo prima. Sapevamo che uomini, donne e bambini ci stavano aspettando: avevano ancora bisogno di noi, non potevano permettersi questa attesa”, racconta Jessica Coronado, coordinatrice nutrizionale e sanitaria di Azione contro la Fame in Guatemala. La collega Johana Chacón aggiunge che “poter finalmente vedere l’espressione di chi ci aspettava è stato, dunque, un vero sollievo”.

 

Paura di un nuovo nemico

Gli operatori di Azione contro la Fame concordano sul fatto che, oltre alla capacità logistica, il rapido adattamento al cambiamento e la capacità di lavorare con un’enorme pressione, si sono rivelati i principali punti di forza con cui gli staff hanno affrontato, a livello globale, questa nuova crisi.

“Abbiamo dovuto ‘assimilare’ la nuova situazione molto rapidamente e compreso che non si trattava solo di un’altra epidemia ma di un virus che si stava propagando anche in molti altri Paesi del mondo allo stesso tempo e, dunque, senza precedenti”, spiega Aurora Egea, coordinatrice latino-americana acqua e igiene dell’organizzazione.

“Penso che la cosa più difficile sia stata la paura di essere contagiati, o che qualcuno della mia squadra potesse essere colpito dal virus”, racconta Javier Yesid Velandia Leal, coordinatore della logistica in Colombia, che ricorda anche il momento più difficile: “Ho dovuto prendere un aereo per recarmi in Amazzonia, dove i casi di Covid-19 aumentavano rapidamente. Era una zona del Paese che non conoscevo e, avendo famiglia, avvertivo il rischio di essere contagiato”. Ma Javier era, comunque, consapevole dell’importanza del suo lavoro in prima linea: “La logistica non si ferma, spetta a noi fare in modo che tutti i nostri colleghi abbiano ciò di cui hanno bisogno per fare il proprio lavoro”.

La coordinatrice delle risorse umane per la Mauritania, Caroline Legat, cita come un momento critico l’annuncio dell’imminente chiusura delle frontiere interne: nell’occasione, gran parte del team, a un certo punto, ha dovuto decidere se continuare a lavorare in zone ‘remote’ o cercare di tornare a casa dalle proprie famiglie: “Una circostanza che ha implicato un notevole carico di stress: stare lontano dai propri cari, in un momento come questo, e continuare ad essere impegnato con la popolazione è qualcosa che può essere gestito solo con una forte vocazione umanitaria”.

Dalla Liberia, Kebbeh Franklin, coordinatore del programma, sottolinea la paura non era l’unico ‘spettro’ a dover essere affrontato: “È stato un colpo molto duro vedere come le madri di bambini malnutriti abbiano smesso di venire nei centri sanitari per paura del contagio”. Qui i team di Azione contro la Fame hanno lavorato anche contro miti e disinformazione: “Gran parte della popolazione credeva che il Covid-19 fosse una malattia solo per gli europei e non era, dunque, consapevole del pericolo”.

Ndery Gueye, capo progetto in Mauritania, sostiene che il momento più gratificante sia stato “il giorno in cui abbiamo sentito che la paura stava scomparendo da entrambe le parti, umanitaria e beneficiaria, e abbiamo capito che era possibile continuare a lavorare e salvare vite umane con certe misure di prevenzione e di distanza”.

Tecnologia, distanza, igiene estrema e massima creatività: un nuovo modus operandi in pochi giorni

“La parola ‘reinventare’ è stato il concetto chiave in questa pandemia: gli operatori umanitari hanno dovuto modificare la propria vita e adattarla a una nuova realtà”, spiega Simone Garroni. In pochi giorni, lo staff di Azione contro la Fame, d’altra parte, ha dovuto cambiare le modalità di distribuzione del cibo per garantire il distanziamento sociale, proteggere il personale nei centri sanitari sforniti di attrezzature protettive, organizzare il monitoraggio telefonico dei beneficiari e rendere virtuali tutti gli spazi di coordinamento.

Da Tbilisi, Georgia, il coordinatore delle risorse umane per il Caucaso, Tamar Zurabashvili, sottolinea “la creatività e la capacità continua di lavorare in squadra come le competenze cruciali per avere successo in queste circostanze che richiedono nuove soluzioni in un momento in cui ogni lavoratore deve garantire la propria sicurezza personale aiutando gli altri”.

Abeda Sultana Liza, impegnata nel campo profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, è chiara sulla prima cosa che farà quando tutto questo sarà finito: “Abbracciare la mia famiglia, i miei compagni di squadra e tutte le persone a cui tengo. Solo per un momento, perché poi dobbiamo continuare a lottare per i rifugiati, per il cibo dei bambini. La lotta al Covid-19 non rappresenta l’unica nostra sfida. Per questa ragione, continueremo a combattere in prima linea”.

 

 

Azione contro la Fame è un’organizzazione umanitaria internazionale leader nella lotta contro le cause e le conseguenze della fame.

Da 40 anni, in circa 50 Paesi, salva la vita di bambini malnutriti, assicura alle famiglie acqua potabile, cibo, cure mediche e formazione, consentendo a intere comunità di vivere libere dalla fame.