Editoria vs Creator Economy: due punti di vista diversi della narrazione aziendale

Il mercato della creator economy continua la sua crescita esponenziale. A confermare questo boom, i dati del 2023 pubblicati da Stripe, società americana fornitrice di un’infrastruttura software che permette a privati e aziende di inviare e ricevere pagamenti via internet. Se, nel 2021, anno al quale risale la prima ricerca, 668.000 creatori avevano ricevuto complessivamente pagamenti pari a 10 miliardi di dollari (dato ottenuto aggregando i dati delle 50 piattaforme per i creator più popolari su Stripe), nel 2023 la cifra è salita a oltre 25 miliardi di dollari di ricavi, per un totale di oltre un milione di produttori di contenuti.

Nell’epoca del potere editoriale diffuso, è sufficiente, infatti, possedere uno smartphone e una connessione per influenzare i flussi narrativi di aziende e istituzioni pubbliche, modificando, spesso, la loro narrazione comunicata in conferenza stampa.

L’incontro delle imprese con le testate di riferimento, però, sta cambiando fisionomia: i giornalisti devono fare i conti sempre di più con gli influencer, invitati dalle aziende in occasione non solo del lancio di un nuovo prodotto sul mercato, ma anche nella fase in cui questa persona, che rappresenta un modello più evoluto di un puro e semplice testimonial, incarna i valori dell’impresa e li divulga ai propri follower. Spesso, però, succede che “questa convivenza forzata tra le due categorie possa sfociare in incidenti diplomatici, come il rifiuto da parte dei giornalisti di recarsi ad eventi stampa in cui è prevista la presenza di queste nuove figure del mondo digitale, imprenditori che, in Italia, non sono ancora regolamentati rispetto ad una categoria che, invece, lo è tramite un apposito ordine professionale – dichiara Francesca Caon, titolare di CAON Public Relations, società di pubbliche relazioni e autrice del libro ‘I dieci comandamenti delle PR’, edito da Roi Edizioni – a questa percezione, poi, si aggiunge la crisi dell’editoria, e quindi la riduzione degli investimenti pubblicitari nel settore, alla quale fanno da contraltare le cifre esorbitanti guadagnate dai creator. Per farla breve, serpeggia un po’ di invidia da parte di giornalisti pagati pochi euro ad articolo nei confronti di persone ricche e famose a suon di adv”.

L’ideale sarebbe conciliare le diverse caratteristiche di due tipologie di comunicazione che, se opportunamente integrate, potrebbero dare alle aziende un valore aggiunto in termini di brand, posizionamento e responsabilità sociale.

“La comunicazione dei blogger e degli influencer è immediata e senza filtri – sottolinea Caon – quindi dà un riscontro immediato, perché escono, di norma, in tempo reale o quasi, facendo una sorta di telecronaca dell’evento. Si tratta di persone ammirate ed emulate, pensiamo, per esempio, a quando indossano un capo di abbigliamento o un accessorio. Ecco perché mi piace definire l’influencer un ‘catalogo pubblicitario vivente’ che ci mette la faccia e che mette a proprio agio i suoi follower con contenuti attraenti ed in linea con gli algoritmi delle piattaforme. All’inizio diventare influencer per molti di loro è una passione, che, poi, però, si trasforma in una professione. Una professione che, secondo una ricerca di Adecco, rappresenta il lavoro dei sogni per i ragazzi italiani (+505% in dieci anni). Al contrario, gli organi di stampa hanno bisogno di tempi più lunghi, sia perché i media cartacei tradizionali hanno i loro tempi editoriali, sia perché devono, giustamente, garantire un approfondimento della notizia, provocando anche indignazione, domande e riflessioni nei lettori rispetto a contenuti più frivoli e leggeri”.

Insomma, siamo di fronte ad un incontro/scontro tra un’informazione immediata e veloce ed una informazione mediata, lenta, ma autorevole, perché garantita da testate storiche e prestigiose che sono esse stesse riconosciute dall’opinione pubblica come brand affidabili.