SCUOLA – Pensioni, i nati negli anni Ottanta andranno in pensione a 75 anni per un assegno di mille euro

Le grigie previsioni dell’Anief sulle pensioni dei trentenni italiani stanno diventano nere. L’ufficio studi del giovane sindacato ha infatti stimato che mediamente gli insegnanti immessi in ruolo nel corso del 2015 attraverso la Buona Scuola, rispetto a chi lascia il servizio oggi, andranno a percepire un assegno mensile fortemente decurtato: se un docente che oggi lascia il servizio attorno ai 65 anni percepisce una pensione media di 1.500 euro, chi è stato immesso in ruolo oggi andrà in pensione solo a 70 anni con assegni inferiori ai 900 euro. Per assicurarsi una pensione decente, sopra i 1.000 euro, dovranno così valutare se rimanere in servizio ancora, magari sino a 75 anni.

“A preoccupare – scrive la stampa nazionale – è anche il fatto che l’esecutivo non abbia intenzione di mettere mano all’intero sistema lasciando nel limbo la generazione "80", quella che rischia di dover restare al lavoro fino ai 75 anni, a patto di riuscire a trovarlo. L’ipotesi è prevista dalla riforma Fornero che penalizza le carriere intermittenti, i redditi bassi e pondera l’accesso alla pensione con l’aumento della speranza di vita. Nella legge scritta dall’ex ministro del Lavoro del governo Monti è messo nero su bianco che chi va in pensione con il sistema contributivo (dunque chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996) può uscire in modo anticipato (a tre anni dal requisito) o per vecchiaia, solo se rispetta un limite di reddito. E quanto più questo reddito è basso, tanto più tardi potrà ritirarsi: di fatto, per andare in pensione, i lavoratori post 1996 devono aver versato davvero molti contributi”.

È questo un altro “regalo” della controriforma delle pensioni. Così, “chi non arriva ai livelli minimi, per esempio precari con buchi contributivi o lavoratori autonomi che hanno versato poco, dovrà rimanere al lavoro quattro anni in più rispetto al traguardo della vecchiaia, addirittura sette in più su quello anticipato. Tradotto in termini di requisiti attuali: anziché a 63 anni e 7 mesi o 66 anni e 7 mesi, si va via a 70 anni e 7 mesi. Ai "ragazzi" del 1980 potrebbe andare peggio, perché se quando andranno in pensione la speranza di vita si allungherà ancora, potrebbero rischiare di uscire a 76 e 4 mesi”. Con un assegno molto più basso di quello che acquisirono i loro padri con 10-15 anni di età in meno.

Ancora una volta, la scuola rappresenta il comparto più penalizzato: lo scorso anno, grazie all’approvazione di un emendamento alla Legge 190 del 23 dicembre 2014, presentato dalla deputata del Pd Luisa Gnecchi, è stato permesso di far accedere alla pensione, senza incappare nelle decurtazioni, le lavoratrici con meno di 62 anni di età, se in possesso di 41 anni e mezzo di contributi e i lavoratori 42 anni e mezzo. I numeri dei pensionamenti salirono. Ma si è trattato di un “fuoco di paglia”.

Perché un decreto interministeriale, Mef e Ministero del Lavoro, dal 1° gennaio 2016 ha posticipato di ulteriori quattro mesi l’età e i requisiti per lasciare il lavoro: i requisiti contributivi per il conseguimento del diritto alla pensione di “anzianità” sono saliti a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini. E a 41 anni e 10 mesi per donne. Con il risultato che, sempre nella scuola, si è ritornati ai pensionamenti del 2014, quando nella scuola lasciarono il servizio appena 14.522 tra docenti e Ata: le stime dell’anno in corso, indicano infatti un buon 40% in meno di dipendenti che a settembre 2016 lasceranno il servizio, un vero tonfo. Nel frattempo, proprio oggi, l’on. Gnecchi ha presentato un’interrogazione parlamentare, attraverso la quale chiede al Governo dei chiarimenti sull’estensione della platea dei cosiddetti ‘Quota 96’, i lavoratori della scuola che dovevano lasciare nel 2012 ma invece rimasti “incastrati” per via di un errore della riforma Fornero.

Per arginare questo processo di impoverimento delle pensioni, gli esperti di settore consigliano di aderire al Fondo previdenziale di comparto (per la scuola denominato “Espero”) e alla pensione integrativa bancaria garantita con sgravi fiscali. Per questi motivi, Anief valuta ricorsi in Europa per violazione della direttiva 88/2003 sull’organizzazione orario dell’orario di lavoro.

“Tutto ha avuto inizio – ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario confederale Cisal – a partire dal tradimento del patto generazionale, nel 2001, quando i neo assunti, a seguito d’uno scellerato accordo sindacale, si sono visti improvvisamente decurtare quasi un terzo delle vecchie liquidazione nel passaggio da TFA al TFR, dove però, non opera la trattenuta illegittima del 2,5%. Poi sono arrivate le riforme pensionistiche, sino all’ultima che obbligherà a lavorare una vita per avere meno dell’assegno sociale. Non è possibile pensare che fino al 2011 si prendeva come pensione l’80% dell’ultima retribuzione, mentre in prospettiva si arriverà a percepire un terzo dell’ultimo stipendio. Chi parla di macelleria sociale non sbaglia”.