I NOSTRI DOCENTI HANNO GLI STIPENDI DA FAME? TUTTO TACE

Approvare la riforma della scuola in Parlamento, a colpi di fiducia e contro il volere di tutti, ad iniziare da chi nella scuola ci vive tutti i giorni, è un boomerang che presto tornerà a presentare un conto non indifferente allo Stato italiano. Avere, ora, anche l’arroganza di pensare di far digerire all’opinione pubblica questa scelta dannosa, mistificando la realtà è un’operazione inaccettabile. Forse, ancora più pericolosa della prima. Perché si vuole andare ad agire sul pensiero e sulle coscienze di chi su questo provvedimento, stracolmo di norme incostituzionali, ha le idee molto chiare. Come le aveva prima della riforma, quando i mali della scuola era già evidenti a tutti, meno che al legislatore della ‘Buona Scuola’.

Tra gli ultimi interventi di questo tenere, abbiamo intercettato quello di Attilio Oliva, presidente dell’associazione Treellle, che di recente è intervenuto sul ‘Sole 24 Ore’ con un contributo che ha nel titolo tante buone premesse – ‘Tutte le verità taciute sulla nostra scuola’ – ma poi nel suo sviluppo lascia davvero molto a desiderare. Perché ci saremmo aspettati una disamina lucida e obiettiva sui perché in Italia occorreva adottare delle modifiche nel comparto dell’Istruzione pubblica. E sui motivi per i quali la riforma della scuola Renzi-Giannini non ottempera a questa esigenza. Invece, sul quotidiano più vicino a Confindustria si lesinano critiche al provvedimento che, dopo la firma apposta dal Capo dello Stato, nelle prossime potrebbe trovare spazio nella Gazzetta Ufficiale. Cercando, nel contempo, di spostare l’attenzione sui presunti motivi che giustificherebbero l’approvazione della riforma della scuola più contestata della storia d’Italia. Mentre i motivi per cui la scuola non funzionava sono precedenti alla riforma.

TROPPI DOCENTI? NON È VERO
Nel documento del presidente di Treellle si esordisce sostenendo che “già prima delle centomila assunzioni, la nostra scuola è quella che in Europa ha più insegnanti in relazione al numero degli studenti”. E “che il rapporto è di circa 1:11 contro 1:15”. Premesso che le illuminanti cifre emesse da Treellle, per tutti coloro che operano nella scuola sono pane quotidiano, vale la pena ricordare che una delle particolarità positive della scuola italiana è la presenza di oltre 110mila docenti di sostegno su circa 720mila complessivi. Che però, gravando sul Miur, vanno a ridurre sensibilmente il rapporto insegnanti-alunni. E lo stesso dicasi per i docenti di religione, che pur essendo scelti e nominati dal vicariato, vanno ad incidere sempre, in chiave negativa, sugli organici emessi dall’amministrazione scolastica centrale di Viale Trastevere.

ETÀ DEI DOCENTI TROPPO ALTA? LA RIFORMA PEGGIORERÀ LE COSE
Treellle sostiene anche “che l’età media dei nostri insegnanti è di oltre 55 anni, mentre nel resto di Europa si aggira su poco più di 40”. E che, addirittura, “da noi si entra in ruolo a quasi 42 anni (dopo un estenuante e umiliante precariato) contro i 25-27 degli altri paesi”. È tutto vero. E allora? Ancora una volta si vuole associare questo record negativo, alla presenza di graduatorie e liste di attesa decennali. Ma a crearle chi è stato? Ad aggirare sistematicamente la direttiva Ue 70/1999, creata apposta per evitare il precariato, chi è stato? È tutto dire che, anche oggi, con la riforma Renzi-Giannini, 80mila docenti abilitati dopo il 2011 rimarranno incredibilmente fuori (oltre che decine di migliaia di maestri dell’infanzia abilitati e regolarmente inseriti nelle GaE, altrettanti Ata e tanti idonei dei vecchi concorsi) dal piano straordinario di stabilizzazione. Per non parlare della beffa del concorso a cattedra 2015, da bandire entro il prossimo 1° dicembre, riservato ai soli abilitati: era l’occasione buona per ridurre l’età media dei nostri docenti, invece lascerà fuori dalla selezione tutti i giovani laureati.

ASSUNZIONI, MA QUALI SANATORIE?
Sul Sole 24 Ore si scrive anche che “ormai da decenni il reclutamento degli insegnanti avviene per lo più grazie a sanatorie, senza alcuna attenzione né alla selezione di giovani laureati motivati né alla valutazione dei precari sulla base della loro prova sul campo”. Superandosi, si sostiene “che questo viene definito “tutela dei diritti acquisiti”, mentre la scuola dovrebbe tutelare prima di tutto i diritti degli studenti”. Anche su questo versante, si ribalta la verità, contraddicendo ancora una volta le buone intenzioni iniziali del documento. Perché è proprio per la mancanza di tutela dei diritti dei lavoratori della scuola, gli unici della PA italiana a vedersi reiterare il contratto anche per decenni pur in presenza di posti vacanti, che la Corte di Giustizia europea è stata tirata in causa e costretta, lo scorso 26 novembre, ad emettere un monito storico, chiedendo chiarimenti alla nostra Corte Costituzionale (che continua a prendere tempo), per la stabilizzazione automatica di tutto il personale che ha svolto almeno 36 mesi di servizio su posti vacanti. Una questione, tra l’altro, che su sollecitazione dell’Anief, anche gli Uffici della Commissione europea stanno prendendo in esame e sui chi già sono arrivate delle prime risposte indicative. E anche la recentissima considerazione, da parte dei tribunali italiani, del periodo pre-ruolo ai fini della ricostruzione di carriera, con risarcimenti anche di 20mila euro a docente, vanno in questa direzione. Confermando che i diritti dei docenti e Ata italiani non sono affatto tutelati delle leggi, ma vanno ancora salvaguardati attraverso i giudici.

RECORD ABBANDONI, LE COLPE SONO ALTROVE
Treellle arriva a collegare il record italiano in Europa di abbandoni (circa il 20%) e di assenze degli studenti, “oltre il doppio rispetto alla media”, con le attività che vi si svolgono nelle nostre classi, le quali “non riescono a coinvolgerli”. Perché, invece, non si ricorda che siamo diventati ultimi in Europa per numero di allievi che lasciano i banchi prematuramente dopo a seguito delle politiche dei tagli ad oltranza imposti negli ultimi setto-otto anni, sia rispetto al numero di scuole, sia al numero di ore di lezioni settimanali, sia in riferimento alla cancellazione di oltre 200mila posti tra personale docente e Ata? Anief, a tal proposito, ha proposto in diverse sedi, anche istituzionali, l’anticipo del percorso formativo di un anno e, nel contempo, di estendere l’obbligo formativo a 18 anni, come già tentò di fare nel 1999 l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Se a questo aggiungiamo l’utilizzo di fondi ulteriori, nazionali e europei, finalizzati a migliorare l’orientamento scolastico, e la maggiorazione di quote di organico di personale da destinare proprio nelle aree più a rischio dispersione, assieme ad una vera riforma dell’alternanza scuola-lavoro, potremmo seriamente pensare di avvicinare quel 10 per cento di dispersione indicato dall’Ue all’inizio del nuovo millennio come soglia massima.

I NOSTRI DOCENTI HANNO GLI STIPENDI DA FAME? TUTTO TACE
La verità è che per migliorare i risultati scolastici e ridurre gli abbandoni dei banchi non ci sono ricette miracolose. Ma dei provvedimenti di buon senso. Oltre che riportare gli organici a livelli delle riforme pre-Gelmini, Treellle farebbe bene a leggersi i risultati di un’autorevole ricerca scientifica di Peter Dolton, docente di Economia presso l’Università del Sussexe ricercatore presso la London School of Economics, Oscar Marcenaro-Gutiérrez, professore dell’università di Malaga, e Adam Still esperto di Gems Education solutions, bene evidenziata dalla Repubblica, secondo cui la soluzione è semplice: per migliorare la scuola occorre pagare meglio i docenti e contemporaneamente ridurre il numero di allievi per classe.
“Confermando quello che Anief sostiene da anni – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief, segretario organizzativo Confedir e confederale Cisal -: se vogliamo farla finita di perdere per strada 2 milioni e 900mila giovani delle superiori, come è accaduto negli ultimi quindici anni, occorre dare stipendi dignitosi, iniziando a riportarli almeno al costo della vita, mentre oggi sono fermi a 4 punti sotto l’inflazione e privi pure dell’indennità di vacanza contrattuale sino a tutto il 2018. In pratica vengono pagati meno di tutti rispetto ai Pasi moderni, con i neo-assunti che si ritrovano una busta paga ferma per un decennio, pur svolgendo le stesse ore di lavoro degli altri Paesi dell’area Ocse. Inoltre, occorrerebbe alzare l’obbligo formativo e mettere i nostri docenti nelle condizioni di lavorare meglio, riducendo il numero di alunni e cancellando quella vergogna nazionale che sono le classi pollaio”.

STUDENTI POCO FORMATI? COLPA DEL CURRICOLO E NON DEI TAGLI
E non è finita. Perché la riduzione di efficacia del nostro sistema scolastico si associa ai curriculi degli studenti italiani, che avrebbero “un carattere enciclopedico (facile all’oblio) e una forte prevalenza delle materie cosiddette umanistiche rispetto a quelle scientifiche e tecniche”. Inoltre, “sono così rigidi da non permettere alcuna opzionalità per gli studenti”. E “perfino il latino, che è opzionale in tutti i paesi del mondo, in Italia (e in Grecia) è invece materia obbligatoria per circa il 40% degli studenti delle secondarie”. Inoltre, continua il documento in perfetto stile Confindustria, “lo sapevate che da noi la didattica è prevalentemente “trasmissiva” e che buona parte del tempo scuola è impegnato da lezioni e interrogazioni, senza un coinvolgimento più motivante e interattivo degli studenti?”.
Quindi, secondo questa teoria, la mancanza di preparazione dei nostri studenti andrebbe ascritta ai programmi e ai metodi anacronistici. Nemmeno una parola si spende, invece, sul fatto che il tempo-scuola con la Legge 133/08 si è ridotto più di un sesto: con l’Italia che oggi detiene il triste primato negativo di 4.455 ore studio complessive nell’istruzione primaria, rispetto alla media di 4.717 dell’area Ocse: non solo, alle ex elementari è subentrato il maestro “prevalente” che svolge 22 ore, con il resto dell’orario assegnato anche ad altri 4-5 colleghi. E il docente d’inglese della primaria non è più specializzato. Si sorvola sul fatto che l’attuale modello formativo è in crisi perché l’offerta formativa non ha più una struttura propria. Lo stesso vale per la scuola superiore di primo grado, visto che i nostri ragazzi passano sui banchi 2.970 ore, contro le 3.034 dei Paesi Ocse.

L’ITALIA SPENDE PER LA SCUOLA COME GLI ALTRI PAESI UE: L’ISTAT DICE CHE NON È VERO
L’ultima “perla” di saggezza che ci regala Treellle, riguarda il fatto che “tutte queste anomalie e ritardi non dipendono dalla lamentata carenza di risorse finanziarie, visto che la percentuale del Pil destinata alla nostra scuola è del 3%, cioè in media europea, e soprattutto che il nostro “costo per studente” è addirittura più alto”. Il problema, continua Oliva, “sta tutto nella loro cattiva allocazione”.
Rispondiamo, anche in questo caso, con dei dati inequivocabili. Che dimostrano come i mali della scuola italiana sono precedenti alla riforma. E che il provvedimento varato dal Parlamento, approvato in ultima verifica dall’aula della Camera la scorsa settimana, potrà incidere ben poco nel voltare pagina. Perché non è affatto vero che l’investimento per la scuola in Italia è in linea con quello degli altri Paesi: siamo ultimi in classifica, fortemente staccati dagli altri. Peggio di noi fa solo la Grecia.
Ce lo ha confermato anche l’Istituto nazionale di statistica, secondo cui l’Italia si classifica ultima nell’Unione Europea per la spesa pubblica nell’istruzione: il dato è contenuto nell’ultimo Annuario statistico italiano pubblicato dall’Istat sulla base degli ultimi dati Ocse disponibili: il nostro Paese riserva alla crescita e alla cultura dei sui giovani appena il 4,6% del Prodotto interno lordo. La graduatoria è guidata dalla Danimarca (7,9% di “Spesa pubblica per l’istruzione in % sul Pil”), ma fanno meglio di noi anche tutti Paesi più vicini all’Italia, come Regno Unito (6,4%), Paesi Bassi (6,2%), Francia (6,1%), Portogallo (5,5%) e Germania (5,1%).
Va poi ricordato che nei prossimi anni, la spesa in rapporto al PIL che lo Stato Italiano si appresta a sostenere per l’Istruzione pubblica è destinata a decrescere: fino al 2035 il finanziamento pubblico a favore dell’istruzione delle nuove generazioni si ridurrà progressivamente di quasi un punto percentuale (dal 4% al 3,2%). Per poi risalire, ma solo leggermente, sino ad attestarsi al 3,4% almeno fino al 2060. E tra i motivi del decremento, spiega il Mef, vi è dapprima la necessità di spendere ancora meno soldi per il personale scolastico, continuando quindi a mantenere la linea dei tagli agli organici avviata nel 2008 dall’ultimo Governo Berlusconi, attraverso la Legge 133/2008, che ha già portato alla soppressione di 200mila posti tra docenti e Ata. Tutte persone, in carne e ossa, lasciate senza lavoro. Arrecando un colpo ferale alla scuola italiana, che “La Buona Scuola” risolverà solo in piccola parte.