Il buco dell’Inps mette sempre più a rischio le pensioni dei giovani

Il buco dell’Inps è enorme e le pensioni dei giovani rimangono ad alto rischio. Per sanare il problema non bastano le rassicurazioni fornite nelle ultime ore dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, proprio sui conti dell’Istituto nazionale di previdenza, secondo cui l’operazione di confluenza dell’Inpdap nell’Inps sta avvenendo senza problemi perché “la previdenza legata ai dipendenti pubblici è a carico dello Stato”, quindi “il problema non si pone”. La verità è invece quella, bene evidenziata nel corso della trasmissione ‘Presa Diretta’ su Rai Tre, di un ente in forte deficit e alla perenne ricerca di soluzioni per ridurre i costi.

Lo stesso neo presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha delineato la strategia che intenderebbe attuare subito dopo la sua nomina ufficiale da parte del nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella: l’obiettivo di Boeri è “liberare risorse per 4 miliardi di euro. Un risparmio annuale utile a risolvere in modo strutturale e definitivo il problema degli esodati – rimasti senza lavoro e senza pensioni – e del pensionamento degli insegnanti della cosiddetta Quota 96 scuola, costretti a rimanere in cattedra”.

Il problema è che rimane inalterato il buco di 23 miliardi nel bilancio Inps, legato all’incorporazione dell’Inpdap e della sua passività patrimoniale: il deficit è tale che pongono ad alto rischio le future pensioni di centinaia di migliaia di lavoratori pubblici. Ad iniziare da quelle dei precari, a seguito del mancato pagamento dei contributi pensionistici da parte dello Stato nei confronti dei suoi dipendenti a tempo determinato. Inoltre, nonostante le variazioni tecniche, non risultano stati assegnati finanziamenti adeguati per coprire l’enorme “buco” sui TFR degli statali: tanto è vero che i lavoratori pubblici continuano a rimane illegittimamente esclusi perché lo Stato non ha mai versato in solido i contributi.

La realtà, accertata da tempo dalla Corte dei Conti, è che per realizzare queste operazioni di copertura servono soldi veri. Altrimenti si metteranno a rischio anche le attuali retribuzioni pensionistiche. Gli stessi soldi che lo Stato deve assegnare in luogo di quelli figurativi destinati alle liquidazioni dei suoi dipendenti: così come sono stanziati oggi è come se non ci fossero. Per essere credibile, il ministro Poletti dia seguito alle sue parole. Altrimenti rimaniamo fermi agli evidenti segnali di “sofferenza”, svariati e di lunga data. A iniziare dal prolungamento da sei mesi a due anni dei tempi di assegnazione della liquidazione di fine rapporto lavorativo. La stessa stretta sui nuovi requisiti per lasciare il servizio per l’assegno di quiescenza, introdotti con la riforma Fornero-Monti, ha tra le sue motivazioni più forti proprio nelle enormi difficoltà economiche in cui versa l’ente di previdenza sociale.

La strada impervia, del resto, è stata tracciata già dall’ultimo Governo Berlusconi, che nel 2010 ha introdotto la norma sul ritocco dei requisiti con cadenza triennale: nel 2013 il salto in avanti fu di tre mesi, dal prossimo 1° gennaio se ne farà un altro di quattro mesi. Una decisione già presa, quest’ultima, attraverso un decreto interministeriale, Mef e Ministero del Lavoro, approvato appositamente a cavallo del 2014 con il nuovo anno. E il futuro è davvero nero: dal 2050, infatti, i neo-assunti potranno andare in pensione (ridotta) dopo 70 anni o 46 anni e mezzo di contributi.

“La situazione è poco allegra anche per chi è a metà del suo percorso lavorativo professionale – sostiene Marcello Pacifico, segretario organizzativo Confedir e presidente Anief – perché al di là delle rassicurazioni e delle frasi di circostanza delle massime istituzioni in materia, la realtà è quella di un ente alla ricerca di soldi per autofinanziarsi. Ma soprattutto per risanare il debito ereditato dall’assegnazione dell’Inpdap. Solo che non si può pensare di fare cassa con chi ha lavorato tutta una vita”.

“Come non si può pensare di mandare in pensione i giovani con meno del 50 per cento dell’ultimo stipendio: una busta paga, tra l’altro, già penalizzata, nel caso degli statali, da lunghi blocchi contrattuali. E, nel caso dei dipendenti della scuola, già sotto l’inflazione di 4 punti, che potrebbe addirittura affossarsi se il piano di semi-sparizione degli scatti automatici di anzianità dovesse andare in porto. A questi ragazzi, precari e neo-assunti, non possiamo lasciare in eredità un tale carico di sofferenze. Perché hanno diritto allo stesso trattamento stipendiale e pensionistico riservato agli altri, ai loro padri e ai loro nonni. Un Paese moderno – conclude Pacifico – non può trattare così i suoi cittadini più giovani”.