Negli anni più recenti della mia vita “fuori” ho passato moltissimo tempo a recuperare le mie mancanze in fatto di cultura, di tempi cambiati, di tendenze e di avvenimenti anche prosaici, per recuperare il sapore dell’Italia, fatto anche di quegli anni che avevo perduto. Dio mi perdoni, fatto soprattutto di quegli anni; è lì che siamo cambiati, che è cambiato tutto. La cosa che ho fatto di più è stata leggere. Centinaia, più probabilmente migliaia di libri sono passati per le mie mani e per i miei occhi, molti di loro hanno trovato tacito assenso nella mia mente, qualcuno nel mio cuore. Pochissimi nella mia coscienza.
Uno di questi fu una raccolta di scritti dal carcere, pubblicata una decina d’anni circa dopo la mia scarcerazione; l’acquistai pieno di sentimenti nobili, volevo leggere l’inferno altrui per esorcizzare i miei incubi, e speravo quasi – senza alcuna pietà – di trovarvi narrati avvenimenti peggiori di quello che avevo visto accadere io, per potermi liberare dalla sensazione di essere stato una vittima.
Rimasi alquanto deluso quando trovai che quasi ogni disumanità descritta dalle testimonianze del libro io l’avevo, se non subita, vista subire; a far acuire il mio sconforto, fu notare che lo stato più occidentale da cui provenivano quei racconti era l’Unione Sovietica degli anni Cinquanta.
Come faccio a spiegarvi cosa provo? Per voi sono stato cattivo, l’ho meritato. Per voi l’abbiamo meritato tutti. Io sono stato arrestato per aver partecipato a una rapina; tre pestaggi alla settimana, anche minimi, di quelli di cortesia, fatti distrattamente per ricordare chi comanda, sono centosessanta in un anno. Sono stato dentro un carcere speciale quasi otto anni: quanto fa? E vi parlo solo dell’espressione fisica delle violenze, perché non riesco a conteggiare le umiliazioni. Non potrei mai calcolare le parolacce, gli insulti, gli sputi, il cibo andato a male, la privazione del cibo, del sonno, della privacy o del gabinetto, e mille altre meschinità. Se vi avessero convocato come giuria a decidere della mia sorte e invece di “reclusione” avessero nominato questo genere di punizioni, la vostra testa di gente occidentale e ben educata non avrebbe accettato, mi avreste concesso una chance, avreste preteso una spiegazione, perché il fondamento della democrazia è la possibilità di cambiare idea, di scegliere la soluzione migliore, quella che limiti i danni nel caso in cui ci si sbagli. Avreste parlato di violazione dei più elementari diritti umani, di inciviltà e di chissà quali altre belle parole vi facessero dormire bene la notte. Eppure la nazione intera sapeva, percepiva, subodorava o semplicemente sentiva, cosa accadeva nelle galere, e non ho letto in giro di crisi d’insonnia collettive, né singole.
Il reato di una rapina può giustificare il carcere speciale? L’aggravante di terrorismo e banda armata, il fatto che fossi affiliato con le BR, lo ha giustificato? Ho meritato quello che mi è successo? Forse sì.
Io pensavo che avessimo ragione; poi ho cambiato idea. Mi è stata data la possibilità di cambiare idea e di mettere per iscritto la mia dissociazione. E non l’ho cambiata per uscire dallo speciale, badate bene: ne avevano tirati giù parecchi già da tempo quando il lento procedimento iniziato tanto tempo prima, con la conoscenza di un’Italia dentro un’altra Italia, era giunto a conclusione maturando la convinzione più deprimente che potesse cogliermi. Che mi ero sbagliato. Mi sono sbagliato.
Mi piace pensare di essere arrivato a questa conclusione per aver ragionato sui metodi, sulle persone, sulla natura e sulla legge. Ma sotto tortura forse confesserei che quelli come noi hanno soprattutto mancato l’obiettivo. L’errore non era lo Stato nelle singole persone, neanche quando queste persone fossero state (e nel caso dell’omicidio Moro così fu) fra i più alti rappresentanti; lo stato – quando non è uno stato libero, badate bene – è un animale enorme, invisibile, poderoso e inarrestabile. È un castello di certezze e armature, fatto di mille trabocchetti nascosti, che nemmeno i costruttori ricordano più di aver messo, e in cui spesso loro stessi restano impigliati. È una magia di limiti e occlusioni che incastra e castra qualunque tentativo di liberarsi, soffocando con la burocrazia le più elementari richieste, e ammutolisce le fasce più basse del popolo allontanandoli da chi ha il potere con mille stratificate categorie di ostacoli.
Come abbiamo mai potuto pensare di liberarcene agendo tramite sequestro, ricatto, minaccia? Sono armi che hanno a che vedere con l’uomo, non con lo Stato. È l’uomo a esserne colpito e addolorato, ed è l’uomo che impara da questi avvenimenti, suo malgrado, a non esporsi più troppo, diventando paradossalmente proprio quell’animale mansueto e pauroso che lo Stato apprezza, e grazie al quale può continuare ad esistere nella sua essenza pulviscolare e ambientale, troppo piccola per essere percepita e troppo grande per essere battuta.
Vorrei tanto sapere quale doveva essere l’obiettivo, allora, ma non lo so. Ancora oggi non so di chi sia la colpa quando avvengono i grandi errori della storia, le cose monumentali universalmente riconosciute come guerre, bombe, omicidi, e quelle minute, i fatti sociali e di cronaca suscettibili di opinione. E così non so a chi dare la colpa dei nostri anni perduti, e degli anni che perderanno in futuro gli altri che crederanno che la soluzione sia facile. Che ce ne sia una, del tutto.
Ritornando a bomba, uno dei racconti che lessi in questo libro riguardava l’esperienza del primo giorno di carcere. L’autore del breve testo descriveva quasi alla perfezione ciò che avveniva nel cuore di un uomo dopo che la porta della cella veniva sbattuta dietro di lui una volta entrato nel suo regno fatto di cinque passi per tre: smarrimento breve, rinvigorimento di riflesso, smarrimento un po’ più lungo, un altro momento di rilancio delle forze in cui si stilano le ragioni per vivere e per sopravvivere, le buone intenzioni riguardanti ciò che farai del tuo tempo da passare dentro, il tentativo di guardare fuori dalla finestra, una breve constatazione delle disastrose condizioni igieniche in cui dormirai e sbrigherai le questioni corporali per i prossimi anni… e infine lo smarrimento definitivo, lo stato di dolorosa confusione che accompagnerà tutti i tuoi giorni dentro e parecchi di quelli fuori, quando ti accorgi che dopo aver fatto queste basilari e identiche azioni (chiunque tu sia, questo è ciò che fai appena arrivato in prigione) non te ne restano altre da svolgere, e che sebbene ti sembri di aver già portato a termine gran parte dell’onere galeotto, “con un’occhiata all’orologio” scopri che non hai trascorso che tre minuti in carcere, i primi tre minuti di chissà quanti anni.
Vi sembra l’inferno? Allora sentite qua: quella sopra riportata è la testimonianza di un carcerato negli anni Trenta. A parità di condizioni e con tutte le cose che vi ho descritto qualche riga più su, ben quarant’anni dopo, quarant’anni di progresso, di vittorie nel campo dei diritti civili, di sonde che raggiungevano Marte e di esplosioni di pace e amore nel mondo, noi non potevamo avere orologi in carcere. Il limbo in cui si fluttuava nei periodi di isolamento che poi erano la maggior parte, il non sapere più se si stava aspettando il pranzo, la cena, il sonno o la morte: questo era l’inferno.
E a sentir parlare l’opinione comune, è stato giusto così.
Francesco, Il Professore
Ex brigatista, dissociato
Volontario presso un centro sociale della Capitale
Tratto da Il picciotto e il brigatista – Fazi editore