Un Paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle scuole alle carceri

di Vincenzo Andraous

Mi colpisce l’indifferenza, la disattenzione, con cui si prende atto che in carcere ci si ammazza a vent’anni, a quaranta, a sessanta, nel silenzio più colpevole, ma ciò non provoca alcun brivido, se non quello di prendere per il bavero l’intelligenza. In questo bailamme di disegni sgangherati, di giustizia dell’ingiustizia, di ingiustizia della giustizia, in questo abisso: alla prima curva non c’è più a fare da ponte l’uomo, ma lo spettro di una disumana accettazione. Penso alla politica alta, penso agli uomini che la fanno, penso ai Caino che scontano la propria condanna, penso agli Abele dai silenzi protratti, ricordo i tanti miliardi elargiti a parole nella vecchia, come nella nuova legislatura, e così sarà in quella futura, per un progetto “intero” su una nuova cultura della pena, almeno così era stato pensato per riconsegnare scopo e utilità al carcere. Rammento le conferme per un investimento serio e notevole per far si che la prigione potesse praticare il dettato Costituzionale, e non quell’incerta nostrana pena di morte. S’è trattato di utopia spicciola disegnata dagli utopisti che nella realtà sono illusi nella teoria, e violenti nella pratica. Di illusione s’è trattato davvero, infatti quei soldi sono stati dirottati verso altri lidi, verso altre istanze, non più per bilanciare precise scelte di politica criminale, che andassero, sì, verso una richiesta legittima di sicurezza collettiva, per rispondere all’esigenza di giustizia delle vittime, degli innocenti, ma con la stessa intensità non disdegnassero una pena improntata realmente su passaggi rieducativi, risocializzanti, quindi di una possibile riparazione. Le necessità operative del carcere restano, impellenti, improrogabili, eppure rimangono a sopravvivere delle loro assenze e mancanze. Peggio, si rifiuta di ovviare al problema con lo sviluppo di spazi psicologici e relazionali, dove chi è in prigione possa esprimersi in un terreno fertile per l’autocritica, per la propria crescita personale. L’antropologia insegna che dal confronto, laddove si realizzi un vero ragionamento dialogico, scaturisce sempre e comunque un “prodotto nuovo”, perché l’incontro e lo scambio conducono a risultati sempre migliori rispetto ai precedenti. Tutto questo mi porta comunque a una ulteriore considerazione; in tanti rimarranno alla finestra ad aspettare, gli altri appesi a una corda, contribuiranno a risolvere il problema del sovraffollamento.