In attesa di riformare la curia e le sue strutture…monsignor Giacinto Tavilla torni umile

di ANDREA FILLORAMO

Nel Seicento, portata dagli occupanti dominatori, si diffuse fra i nobili in tutte le contrade la moda sfarzosa, barocca e vistosa degli Spagnoli. Il marchese e i suoi figlioli (si osservino i personaggi che tengono compagnia ai Santi nei grandi dipinti che ornano alcuni altari delle chiese di allora) portavano calzoni e farsetto, marsina e giubbetto ornati di bottoni dorati, alamari e galloni; alla vita stringevano una larga cintura di cuoio ornata di borchie; coprivano le spalle con una larga cappa. Logicamente i vassalli non ponevano mente a seguire la moda spagnolesca; essi continuavano ad usare le vesti semplici tradizionali: camicia di tela, calzoni, panciotto, giubba, mantella e cappellaccio di feltro. Nobiluomini e popolani…, niente mutande; non erano state ancora inventate! Nobili, preti e monaci godevano di molti privilegi; non soltanto non pagavano tasse, ma erano autorizzati a riscuotere tributi per conto loro. Verso di essi il popolo aveva rispetto e riverenza e soggezione e su di essi, per la loro opera rispettivamente di comando e di persuasione, il viceré spagnolo faceva affidamento per attuare la sua capillare politica di sfruttamento fiscale. Nobili e preti godevano di molti privilegi; non soltanto non pagavano tasse, ma erano autorizzati a riscuotere tributi per conto loro. Verso di essi il popolo aveva rispetto e riverenza e soggezione e su di essi, per la loro opera rispettivamente di comando e di persuasione, il viceré spagnolo faceva affidamento per attuare la sua capillare politica di sfruttamento fiscale. Non si offenda monsignor Giacinto Tavilla (ripeto: monsignore) se, a commento della sua presa di possesso come parroco della parrocchia S. Caterina di Messina, lasciatagli in eredità da mons. La Piana il giorno prima delle sue dimissioni di arcivescovo come atto dovuto per i servigi a lui resi, vado con la mia memoria a ciò che avveniva ben quattrocento anni fa. Allora la società e anche la Chiesa adottavano il sistema aristocratico-feudale, proprio quello descritto da Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi e la foggia dei vestiti era pienamente confacente a tale sistema. Ma oggi, per fortuna non è più così. Ritengo, perciò, paradossale e – mi si consenta – ridicolo che il reverendo Giacinto Tavilla e il suo predecessore si siano presentati alla cerimonia di insediamento, almeno così li ho visti nelle foto, coperti di “trine e merletti”, paludati di rosso, circondati da preti che “trine e merletti” non avevano. Oggi l’anacronismo di questo modo di vestire che indica anche un modo di essere (vedi come vesti e ti dirò chi sei) è “vergognoso”. L’abito dice non soltanto ciò che uno è; ma anche ciò che uno vorrebbe essere od apparire. Esterna la personalità allo stesso modo in cui può farlo il gesto, anche se può sembrare impossibile offrire all’individuo una qualsiasi iniziativa ornamentale in un mondo fatto di pret-a-porter.. Non c’è alcuna giustificazione nell’indossare degli abiti che creano “separatezza” nello stesso presbiterio. Non è solo Papa Francesco, che con la sua parola ma specialmente con la sua vita, insegna queste cose, ma è anche il “buon senso”, cioè la capacità di giudicare con equilibrio e ragionevolezza una situazione, comprendendo le necessità pratiche che essa comporta. Ritengo che sia arrivato il momento in cui il “guardaroba da museo” dei preti privilegiati, che oltretutto indica frivolezza, occorre mandarlo in cantina. Dei preti non si deve mai dire o pensare quello che Gesù diceva degli scribi e dei farisei: «Tutte le loro opere le fanno per essere osservati dagli uomini; difatti allargano le loro filatterie ed allungano le frange dei mantelli; ed amano i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze e d’esser chiamati dalla gente: “Maestro!”» (Matteo 23:2-7). Quanto scritto è sicuramente di difficile “degustazione” per il prete che ha sempre aspirato a indossare quegli abiti riservati ai “monsignori“ e non riesce a capire perché quello che oggi è chiamato carrierismo, è “una lebbra!” che mina la Chiesa e la fa sembrare un’organizzazione burocratica. Papa Francesco da tempo ha chiarito come la pensa in proposito. In attesa di riformare la curia e le sue strutture – “ci vorrà del tempo”, diceva qualche mese fa il cardinale honduregno Oscar Maradiaga –, si parte dal basso.