Libertà di pensiero e libertà di critica

di ANDREA FILLORAMO

Nella mia breve permanenza, avvenuta recentemente, in quella che ritengo, dopo quaranta anni, la mia città, dove si agitano ancora i miei affetti, ho avuto la gioia, che si ripete ogni qualvolta ritorno in Sicilia, di condividere, in una trattoria del territorio messinese, una cena con alcuni miei vecchi amici preti. Fra un boccone e l’altro, mentre sorseggiavamo, con necessaria parsimonia, un "bianco", richiamavamo i nostri ricordi, fatti di immagini all’inizio sbiadite poi sempre più nitide come se tanto tempo si fosse fermato a quando eravamo ragazzi, fra le camerate, i corridoi, il refettorio o nel cortile del seminario di Giostra. Riflettavamo, quindi, sulla nostra adolescenza, che non tornerà più. Esaurita la parte dei ricordi, conditi da vecchie “battute” ironiche, da “luoghi comuni”, da riflessioni pedagogiche su quella che era stata la nostra vita di allora, da descrizioni meticolose sui nostri volti adesso cambiati o sulle folte capigliature, “che non sappiamo dove siano andate a finire”, i miei amici indirizzavano la discussione ovviamente conviviale e, quindi, alquanto disordinata, sui loro problemi di sacerdoti, delle difficoltà di essere preti oggi, sulla “rivoluzione” operata da papa Francesco, sul celibato ecclesiastico e su altri temi che riguardano la Chiesa. Ho notato che essi – sì – sollevavano tanti problemi, sulla cui soluzione si gioca tutta la loro vita e non solo quella pastorale, ma apparivano non essere molto interessati ad affrontarli seriamente e che, quindi, riservavano ad altri la soluzione. Era questo l’esito di un dogmatismo, di cui i preti possono essere vittime; quello, cioè che chiude la ricerca e gli orizzonti dello spirito? Si tratta sicuramente di un atteggiamento solitario e individualista di chi ha subìto una certa formazione, a cui manca il lato di un impegno socialmente necessario affinché esso si ritrovi in molti. Un pensiero maturo non allontanerà da sé i suoi simili, ovvero altri pensieri ed altri sistemi di pensiero. Ricordare che ogni pensiero ha diritto se maturo a esistere è allenamento all’elasticità mentale che favorisce un movimento unitario rispetto agli atteggiamenti spiritualmente settari. Per questo non nascondevo il mio disappunto fatto non di parole ma dal gesto di tirar fuori dal borsello il mio cellulare e smanettare con esso. Tante volte, nel passato, e non soltanto durante le cene, alle quali avevo partecipato, quando cioè la stessa mente è distratta dai bicchieri che mai rimangono vuoti, avevo notato questo “modus agendi” prettamente clericale, con cui – ne ero certo – non si “prende possesso” reale della vita, non si è responsabili dei pensieri espressi, che, il più delle volte appaiono precostruiti, cristallizzati in formulette e privi, perciò, di mobilità e di mediazione culturale. Gli stessi argomenti quindi perdono la loro “valenza”. Mentre ancora fingevo di inviare sul cellulare un messaggio, ho notato che il discorso ritornava insistente sul vescovo, giudicato da loro incapace, “bertoniano” per nomina e mentalità, con responsabilità, di cui non si rende conto. Il vescovo aggiungevano: “è privo di cultura umanistica che, se ci fosse stata avrebbe aperto la sua mente alla comprensione degli altri.” Egli – sostenevano “agisce non come vescovo ma come ispettore salesiano”. Concludevano dicendo: “il papa dovrebbe subito dimetterlo per dare respiro ad una diocesi abbandonata a se stessa e a un gruppo di preti dallo stesso vescovo oculatamente scelto per evitare ogni cambiamento che potrebbe condurre alla costruzione, anche in diocesi, della chiesa così come voluta da papa Francesco”. Le stesse cose, dette in quella sera non mi erano nuove. Le avevo sentito più volte, le avevo anche accennate in alcuni articoli pubblicati su IMGpress. Le avevo scritte in quel foglio elettronico, non per essere il loro portavoce ma per dare loro la possibilità di aprire un discorso franco con il vescovo. Ma purtroppo – lo dico con rammarico – non ci sono riuscito. L’idea di questo fallimento l’ho avuto anche quella sera durante quella cena, quando i miei amici preti, discutevano animatamente, al di là di quello che per loro era un impossibile dialogo, di altre possibilità per risolvere i problemi del clero e della chiesa messinese, “dato il silenzio – dicevano – di tutte le istituzioni curiali sui problemi della diocesi”. Essi parlavano di scrivere al Papa, di denunciare alla Congregazione dei vescovi, di rivolgersi ad un “canonista” per sottoporre dei quesiti su alcune questioni. In parole povere si voleva, in tutti i modi, costringere il vescovo a “togliere le tende” e “scuotere i sandali”. Tutti i preti evidenziavano il fatto che non volevano apparire come “complottisti” ma animati dal desiderio di avere un vescovo che li aiutasse nel loro servizio ministeriale. Ho ascoltato per tutta la sera e, nei pochissimi interventi che ho fatto, ho ribadito di evitare ogni atteggiamento “ribellistico” ma che essendo la libertà il bene più prezioso, che possono e devono avere anche i preti, libertà di pensiero e libertà di critica, il vescovo non può tappare la bocca a nessuno quando si parla maniera del tutto lecita, senza l’offesa personale, ma sempre con quel pizzico di sana ironia che piace sempre a tutti. Ho notato, ancora una volta, che nei miei amici permaneva un certo annebbiamento delle sensazioni positive, causato da paura e tristezza. “Ci vedremo la prossima volta?” “Non lo so” dicevo, mentre consultavo l’orologio: erano le ore 23,14. Sono tornato a casa con un senso profondo di vuoto, dato da una situazione che non si vuole seriamente affrontare.