Avvocato, dove ha lo studio? Se lo si dice in un articolo si è sanzionabili

di Alessandro Gallucci, legale Aduc

Che gli ordini professionali e molte delle regole deontologiche che disciplinano il comportamento dei liberi professionisti siano residuati e arzigogoli del periodo fascista non vi sono dubbi e sono gli stessi ordini a mettersi d’impegno per ribadire questo concetto. Il Consiglio Nazionale forense (la massima espressione dei vari Ordini degli avvocati) l’ha voluto recentemente ribadire. Vediamo come. Si legge in una sentenza resa da quest’organismo che costituisce illecito disciplinare per l’avvocato l’aver consentito l’inserimento dei propri recapiti di studio nella pubblicazione di un articolo “con la conseguenza, …, di aver ricevuto personalmente, per un certo periodo, a tali indirizzi le lettere con richiesta di pareri e consigli legali” ciò, si prosegue nel provvedimento “integra una forma di pubblicità non ammessa dai canoni del codice deontologico, in quanto potenziale strumento di accaparramento o sviamento della clientela. Sono, infatti, gli strumenti usati che configurano come lecita, ovvero conforme alla correttezza ed al decoro, ai sensi dell’art. 19 CDF, o meno l’attività di acquisizione della clientela" (C.N.F. sentenza n. 83/2014).
Essere figlio di un avvocato con studio avviato e ritrovarsi la clientela dietro la porta è una fortuna, essere un giovane avvocato e cercala facendo conoscere la propria attività attraverso la pubblicazione di un articolo d’interesse, no, anzi potrebbe diventare una macchia sul proprio curriculum professionale. Se un qualunque avvocato volesse fare sapere alla cittadinanza che è in grado di risolvere un problema (o magari che l’ha già risolto) spiegandone i motivi e facendo sapere dov’è, non potrebbe farlo o se lo facesse (e molti lo fanno) rischierebbe una condanna per violazione del codice deontologico. Si può firmare l’articolo ma non dire dove si ha lo studio. Che ipocrisia!
L’acquisizione di clientela, per la massima espressione del corporativismo forense, non può avvenire in questo modo, ma evidentemente solo incrementando una rete di relazioni personali che sfuggono a valutazioni d’ogni genere: alla faccia della tutela del decoro professionale!
Qual è il danno reale al decoro professionale che può derivare da un avvocato che tiene una rubrica su un giornale (on-line o cartaceo)? La pubblicità, come quella che utilizza chi fa impresa, è vietata: qual è il senso di vietare anche la possibilità di far conoscere la propria professionalità attraverso questa forma di comunicazione? Le risposte vanno cercate volgendo i lumi della ragione alle giustificazioni che si usavano quando Guttenberg doveva ancora nascere e che già allora un cittadino di media intelligenza avrebbe considerato errate.
Vietare la diffusione di conoscenza e soprattutto la legittima aspirazione di un qualunque professionista a crearsi la propria clientela senza sotterfugi, ma solamente contando sulla propria intelligenza, è cosa mortifera innanzitutto rispetto al concetto di libera professione, oltre che naturalmente per l’utenza finale. Sanzionare queste forme di comunicazione vuol dire rafforzare e difendere non il decoro professionale ma l’indecoroso sistema di baronie presenti in tanti studi legali nel nostro paese. Molti praticanti avvocati e molti giovani avvocati, è cosa nota, vedono svilita la propria dignità – e qui sì il decoro della professione – da chi molto spesso ha l’interesse a tenere a freno la concorrenza piuttosto che a valorizzare le professionalità che lo circondano. Siamo convinti che nessun avvocato di buon senso, qualunque sia la sua età, veda come dannoso un proprio collega che per far conoscere una questione e la sua possibile soluzione lo faccia tramite un articolo su un giornale o su internet.
Una rivisitazione in chiave liberale di questo e di altri ridicoli limiti previsti dal codice deontologico forense sarebbe auspicabile, ma questa è una chimera visto che il codice deontologico è stato appena modificato. E nel frattempo? Nel frattempo accadrà quel che è accaduto all’automobilista che per una vita ha parcheggiato in sosta vietata davanti al comando dei vigili urbani senza essere mai multato e poi un bel giorno si è svegliato con la contravvenzione sul parabrezza: insomma l’avvocato resterà in balia dei suoi colleghi controllori che discrezionalmente ed arbitrariamente, ma con il diritto dalla loro, potranno sanzionarlo a proprio piacimento. Con buona pace della certezza del diritto e della sua funzione.