Messina è la malinconia dei giovani

Messina non sa che fare. È ferma, immobile, in bilico sul filo che la collega al mondo, stretta fra il rifiuto del futuro e la tendenza all’autoflagellazione, fra la volontà di tapparsi gli occhi e le orecchie accucciandosi sotto le coperte calde del suo patrimonio di eroi, santi, poeti e navigatori e migranti di successo e la tentazione di aprire il vaso di Pandora per spazzare via se stessa e le sue comunità. Messina non sa che fare, è una città bloccata, non è depressa – perché ci sono sempre punte di eccellenza nascoste nelle pieghe della tenacia e della ribellione – ma è pericolosamente indietro, decisamente spaesata, sempre più frantumata, bloccata nell’ansia del futuro, nel mantra della depressione non tanto economica quanto sociale, storica, forse esistenziale. Messina è una comunità democratica fondata sul lavoro dove tutti i poteri sono in conflitto fra loro, dove la democrazia è un termine che ormai fa storcere il naso, e il lavoro è quello che s’offre ai più fortunati – un precariato a vita dove la sola garanzia è quella di una paga a intermittenza, inclinante sempre più verso il basso e non verso l’alto, come flessibilità e buon senso vorrebbero. Messina è una città che sopravvive come la sua generazione di trentenni incerti, che si dibattono fra le aspirazioni coltivate all’università e la delusione della realtà, fra la nostalgia di una ribellione cui non hanno preso parte perché nei Settanta erano solo in via di concepimento e la volontà di gridare al mondo che esistono pure loro, nella loro battaglia quotidiana per conciliare lavoro e famiglia, nella voglia di stringere i denti per non rinunciare a volare, nella voglia di sorridere e osare fare un figlio. Messina è un luogo che non capisce le donne, quelle “acrobate” – come tutti riconoscono – che si destreggiano fra casa e lavoro per difendere ancora una volta le conquiste delle madri e per riaffermare di giorno in giorno il diritto a decidere di sé stesse e ad affermarsi in quello che vogliono, per poi ritrovare le discussioni sulla femminilità ferme alla sociologia spicciola della maggiorata ritoccata dalla chirurgia estetica e alla finzione sacrificale di una ricercatrice universitaria. Messina è una città bloccata nella percezione dell’insicurezza collettiva che fa comodo alla politica della “tolleranza zero”, quella che offusca i problemi e gioisce dell’identificazione di un capro espiatorio che è sempre straniero fin quando la cronaca non racconta che il branco è diventato buddace. Messina è una comunità che strilla di essere libera e invece si accanisce sul fronte del porto e sul dorso delle colline mentre il territorio è in coma vegetativo permanente sul quale tutti osano parlare, criticare, deprecare, ammonire, demonizzare, intimare, proclamare solo nel proprio unico nome, mentre tutto quello che si vorrebbe e ci vorrebbe è rispetto per l’ambiente. Messina è una città che chiede di essere governata ma ha una classe politica di nominati – chi è stato nominato è dentro, chi non lo è stato è fuori come nell’Isola dei Famosi, con la differenza che non vince nessuno se non il banco – e che in nome della governabilità decide che il sindaco (si fa per dire) per una volta tocca agli ultimi. Messina è un paese – non il Paese – che garantisce ai potenti (ancora, davvero) scuola e sanità ma non garantisce di sopravvivere ai poveri. Messina è una città che arranca mentre potrebbe volare se decidesse una volta per tutte di affidarsi al turismo alberghiero e non quello dei quattro amici al bar del Pilone. Messina è la malinconia dei giovani che si fanno forza a vicenda per non crollare sotto il peso del sarcasmo e della disillusione. Qualcuno scatti una foto ma non ritocchi quella luce nel loro sguardo.