
Mi guardo indietro e rivedo le stragi di Capaci e via d’Amelio. La mercificazione del dolore, la vendita della rivoluzione siciliana dopo il sangue versato da tanti eroi caduti sul campo. Mi guardo indietro e rivedo i volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ripenso alle confessioni del mafioso Gaetano Costa: “Dopo le stragi del 1992 e le bombe dell’estate successiva, all’interno delle carceri si era creata una sfiducia nei confronti della politica di Totò Riina, una coscienza critica contro il vertice di Cosa Nostra, per il modo con cui l’organizzazione stava costruendo la nuova strategia della tensione. Io, in quell’estate di paura e complotto, mi trovavo nel supercarcere dell’Asinara. C’erano anche i palermitani Giovambattista e Ignazio Pullarà, gli Spadaro, i Marchese. Le mie sensazioni di disagio per quella politica sbagliata erano anche le loro, anche se non le manifestavano in pubblico. Ogni uomo d’onore cercava di mantenere un contegno davanti agli altri. Avevamo la maturità di non far trasparire nulla dei nostri sentimenti. Tra di noi c’erano tacite intese. Però capivamo che lo Stato, davanti a quella nuova offensiva portata avanti da Cosa Nostra, avrebbe fatto di tutto per eliminare quegli spazi concessi, dopo enormi sacrifici, ai detenuti con il regime del 41 bis. Già l’anno precedente pensavamo che se Falcone fosse stato eliminato con due colpi di pistola, invece del gesto plateale del tritolo sull’autostrada, la ritorsione da parte dello Stato sarebbe stata più contenuta. In verità, io credo che la morte di Giovanni Falcone sia servita per mandare un messaggio in America (si riferisce agli Stati Uniti). Falcone come figura in se, di semplice magistrato, intendo, non poteva dare fastidio alla Cosa Nostra; anche la modalità dell’esecuzione, l’esagerazione contro di lui e la sua scorta, esula un po’ dalla caratteristica della cupola. Se avessero voluto ammazzare Falcone, avrebbero avuto tante possibilità. Ecco perché quella morte così feroce doveva servire per far arrivare il messaggio: <Inutile che voi cerchiate di fare una formazione politico – governativa che si affida a uno stato di polizia più forte>. Erano questi, in pratica, i discorsi che facevamo tra di noi in carcere dopo la strage di Capaci. Ricordo le parole di Pullarà: <Giovanni, come mai stu gran casino, quattro colpi di fucile non erano megghiu? No, mi rispose, a bumma avia arrivare in America…>. (Giovanni come mai questo macello, quattro colpi di fucile non bastavano? No, la bomba doveva essere sentita in America…). Il discorso è molto complesso. Però, se Giovanni Pullarà si sbilancia con quella frase, qualcosa di vero deve pur esserci. E poi il mafioso è così, se è arrabbiato in quell’attimo ti dice tutto. Poi magari se ne pente, ti fa una <tragedia> per camuffare la verità. Io non andai oltre nella mia curiosità, perché vedevo Giovanni molto incazzato per quella strage. E poi all’epoca mica sapevo che mi sarei pentito?”. E così, mi chiedo: ma questa antimafia è pericolosa o possiamo stare tranquilli? È normale che ci siano dei morti senza che nessuno paghi per i loro omicidi? Se ogni giorno, in ogni programma radio o televisivo, in molti dibattiti, ci si occupa della mafia, c’è un rischio letale o ci troviamo di fronte solo a una psicosi collettiva? E la politica, la società civile, quanto davvero la teme e la combatte? Quando la campagna elettorale sarà finita bisognerà fare qualche discorso di comunicazione e disinformazione collettiva. È vero che questo giornale on line non nutre molte simpatie per i professionisti dell’antimafia – da salotto – ma se tutte le volte che aprono bocca disinformano i cittadini con la cattura del boss Salvatore Riina e con la presunta trattativa tra Stato e mafia, c’è poco da stare tranquilli. Chi sbaglia IMG Press o loro? Come se non bastasse, non c’è politico o associazione che non ci spieghi come comportarci; persino personaggi che non hanno avuto mai un ruolo nella lotta alla mafia hanno chiesto di azioni esemplari nei confronti di coloro che si sarebbero macchiati di gravissimi reati nel catturare il boss Riina, manco fossero stati loro in prima linea a presidiare il territorio. Tutta colpa della disinformazione: basterebbe rileggere gli atti dell’inchiesta per non dire idiozie. Ed allora, anche per concedere l’onore delle armi a un vecchio guerriero, amante dei Sioux e della storia degli indiani d’America, riviviamo con lui l’ultima pagina gloriosa della lotta alla mafia in Italia, ovvero la cattura del capo di Cosa Nostra, Totò Riina detto u’Curtu. Le mille verità sull’arresto di Riina hanno spesso spaccato in due l’opinione pubblica, puntando principalmente sulla tesi che Bernardo Provenzano si fosse accordato con il Ros per stanare Totò Riina. Ultimo, alla fine, non ha sopportato certe maldicenze fatte proprie dalla stampa e ha così voluto spiegare i retroscena ancora sconosciuti dell’operazione antimafia più importante degli ultimi dieci anni.
“La decisione di non perquisire la casa dove Riina abitava con la moglie e i figli è stata mia. La ritengo una decisione giusta, anche se criticabile dal punto di vista operativo”.
Il fatto è che il covo è stato perquisito diciotto giorni dopo la cattura di “u’Curtu, un periodo lungo durante il quale i fedelissimi del capo dei capi avrebbero potuto organizzare il rientro a Corleone della moglie e dei figli di Riina. Una sorta di trasloco in piena regola che ha portato giornalisti e un collaboratore di giustizia come Giovanni Brusca a ipotizzare l’esistenza di un patto tra l’Arma e Provenzano, teso a garantire la cattura del sanguinario Riina in cambio di un occhio di riguardo verso i suoi familiari, non direttamente coinvolti nella strategia stragista di Cosa Nostra.
Ultimo e i suoi uomini del Crimor ucc (Criminalità organizzata unità carabinieri combattenti) erano sulle piste di Salvatore Riina fin dal luglio 1992, ovvero subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Inizialmente furono messi a nudo tutti i componenti della <famiglia> Ganci, che controllava il quartiere della Noce a Palermo. Furono passate al setaccio alcune sentenze che riportavano frasi indicative come quelle di Leonardo Vitale, primo pentito assoluto della mafia palermitana, che assegnava un ruolo importante al quartiere Noce per gli affari di Riina. Partendo da una lite tra uomini d’onore per la spartizione di una tangente e dalla frase pronunciata da Riina (“Io la Noce ce l’ho nel cuore”), con la successiva decisione di dar ragione ai mafiosi di quel quartiere, Ultimo intuì che, individuando il “capo famiglia”, sarebbe arrivato a Riina. E’ così messo sotto osservazione un cantiere dove Raffaele Ganci si ritrovava con i suoi uomini, ovvero quello della Camporeale Costruzioni in via Paolo Guidi. Fu filmato ogni minuto della vita all’interno del cantiere, furono ascoltate migliaia di conversazioni riservate e solo tre mesi dopo uno degli uomini più fidati di Ultimo, tale Vichingo, seguendo Domenico Ganci, figlio di Raffaele, individuerà in via Bernini 54 la casa di Salvatore Riina. Sembra giunto il momento di intervenire – siamo nel Natale 1992 – ma Ultimo decide di congelare l’operazione. Il 9 gennaio, nel corso di una battuta in Piemonte, è arrestato Balduccio Di Maggio, ex autista di Totò u’Curtu, rifugiatosi lontano da Palermo perché in rotta di collisione con i corleonesi. Temendo di essere ucciso, decide di collaborare. Racconterà così delle quattro diverse abitazioni dove era solito accompagnare il suo capo. Una si trova in via Uditore. Ma per il capitano del Ros è forse più importante sapere che, ad appoggiare la latitanza del boss, sono gli imprenditori Antonino e Giuseppe Sansone, quest’ultimo addirittura diventato autista personale di Riina. La pista è buona, ma forse datata perché Di Maggio manca dalla Sicilia da due anni. La moglie e i figli del superboss, nel frattempo, erano stati affidati alle cure di un giardiniere, Vincenzo Di Marco. Pino Sansone è controllato dal Ros, Di Marco dai carabinieri di Palermo. Fu un momento di scoramento perché sembrò che nulla potesse saltar fuori da tali pedinamenti. Diventa così strategicamente importante una riunione dei vertici della Procura di Palermo, al tempo retta dall’aggiunto Vittorio Aliquò ed i carabinieri competenti per territorio. La sorpresa poteva forse essere legata a un emissario del generale Delfino, l’ufficiale che per primo aveva contattato Balduccio Di Maggio in Piemonte. Si pensa in grande tanto da utilizzare duecento uomini e gli elicotteri per circondare la villa di via Uditore, indicata da Di Maggio come covo di Salvatore Riina. Ultimo si opporrà perché aveva già individuato presso il civico 54 di via Bernini una utenza telefonica intestata a Pino Sansone. Insomma, il capitano toscano si innamorava di una pista ben diversa rispetto a quella fatta propria dal vertice degli inquirenti. Sarà lo stesso Di Maggio a confortare la tesi di Ultimo negando che in via Uditore abitasse Totò Riina. Accade però che a Ultimo sono concesse quarantott’ore di tempo per mettere in piedi un blitz in via Bernini. Fortuna vuole che Di Marco è riconosciuto in un videotape dal Di Maggio e così può indicare successivamente anche la Bagarella, moglie di Riina ed uno dei figli. Tutto in poco più di quattro ore di visioni continue dei fotogrammi proponenti ogni minuto del vissuto nella villa.
Occorre intervenire subito e così la “cellula” che deve catturare il superboss si riunisce poco prima dell’alba del 15 gennaio 1993. Il racconto di Ultimo è quasi torrenziale:
“Otto persone, compreso Balduccio Di Maggio, diventano l’ariete dell’operazione. Il pentito si nasconde con Ombra in un furgone posteggiato vicino all’ingresso della villa. Verso le 8 e 20 arriva una Citroen ZX, il cancello si apre, la macchina entra. Mezz’ora dopo l’auto è di nuovo fuori ed al fianco del guidatore c’è proprio Riina. Il mezzo è agganciato da due automobili, in una c’era Arciere, nell’altra io e Vichingo. E’ stato un perfetto sequestro di persona. Nel giro di venti secondi li abbiamo tirati fuori dalla Citroen e caricati con noi. Riina aveva paura. Glielo leggevo negli occhi che aveva paura di morire. Si è tranquillizzato solo quando ha capito che eravamo carabinieri. Per farlo stare buono gli stringevo la sciarpa intorno al collo. Lui tossiva, ma non mi faceva proprio pena. Intanto Oscar che era rimasto in caserma cercava di avvertire le macchine dei colleghi palermitani perché ci venissero a prendere. Ma c’era traffico. Non arrivava nessuno. Così attraversammo tutta Palermo da soli e con Salvatore Riina in macchina”. Con il capo di Cosa Nostra c’era anche Salvatore Biondino, boss del mandamento di San Lorenzo. Ultimo ricostruisce quelle ore di grande tensione e di contrapposizione tra magistrati e generali. Volevano intervenire subito per perquisire i covi del superboss, l’ufficiale del Ros si oppose, quasi urlando ai suoi superiori. “Dobbiamo lasciar tranquilli i Sansone, dar loro la sensazione di non sapere dove abita la famiglia di Riina. Ci basterà pedinare i Sansone per scoprire la struttura di tutta l’organizzazione. Cosa Nostra non riuscirà a capire come abbiamo fatto a prenderlo, cominceranno a sospettare l’uno dell’altro e scardineremo la loro coesione”. Ritornando al pomeriggio di quel 15 gennaio occorre affermare che, probabilmente, se fosse stata effettuata una perquisizione in via Bernini 54 al massimo si sarebbe trovata la biancheria della signora Bagarella. Perdendo così la straordinaria possibilità di seguire le piste dei Sansone. “Molti scrittori e giornalisti affermano che in quella casa poteva esserci l’archivio della mafia. Sono balle. L’esperienza insegna il contrario. Il mafioso che vive con la moglie e con i figli non conserva mai del materiale che possa far rischiare loro l’arresto. Non tiene con sé nemmeno documenti che possano provare la sua ricchezza. In casa di Giovanni Brusca, di Raffaele Ganci, di Leoluca Bagarella, di Nitto Santapaola che cosa hanno trovato? Niente di niente. E’ sempre così”. Quel 15 gennaio la Crimor ritirerà precipitosamente tutti i suoi uomini mentre Palermo, sull’orlo di una crisi di nervi, finiva in mano a frotte di giornalisti sguinzagliati alla ricerca del covo di Totò Riina. La casa del boss dei boss sarà segnalata ovunque. Trascorreranno quarantott’ore e attraverso le telecamere di una televisione privata si consumerà una pièce teatrale.
“I cronisti seguono una Punto dell’Arma territoriale. Vanno al covo di via Bernini, ma Riina è stato catturato un chilometro più lontano. Sembra quasi che i carabinieri giochino al depistaggio e il 19 gennaio organizzano, a uso e consumo degli inviati, una perquisizione in via Uditore, sostenendo che fosse quella la casa di Totò Riina. L’operazione permette, però, di togliere l’assedio in via Bernini e così una squadretta di uomini d’onore riesce a spostare a Corleone la moglie e i figli del capo di Cosa Nostra. I mafiosi, come racconteranno i pentiti, arrivarono in taxi già nel tardo pomeriggio del 15 gennaio, raccolsero quadri, pellicce, soprammobili e se ne andarono via senza che alcuno si accorgesse di loro. Tutto filò liscio proprio perché erano stati sospesi i servizi di osservazione in via Bernini”. A dire il vero, la magistratura palermitana sta ancora indagando contro ignoti sulla mancata perquisizione e sulla fuga della famiglia Riina. Il 30 gennaio la Procura di Palermo romperà gli indugi e piomberà nel covo di via Bernini trovando solo un cunicolo, nascosto dietro un pannello, dove Salvatore Riina avrebbe potuto tentare di nascondersi. I Sansone finiranno in manette e tutto andrà a carte quarantotto. L’amarezza di Ultimo: “Grandissimo errore averli catturati. Bisognava aspettare perché stavamo seguendo una strategia vincente. Con il tempo, pedinando i Sansone e gli altri luogotenenti, li avremmo potuti prendere tutti”. Se una campagna di informazione, rivolta soprattutto ai più giovani, sceglie come testimoni persone che nessuno ha mai tenuto in considerazione perché mediocri o ignoranti, significa che la confusione fra i professionisti dell’antimafia da salotto è grande. Ecco perché oggi mi chiedo: ma questa antimafia è pericolosa o possiamo stare tranquilli?