Oltre la superficie: i costi nascosti della “virtù” messinese nella gestione dei rifiuti

A Messina si ripete spesso che la TARI è bassa, che la differenziata supera il 60% e che la città è più pulita. E in effetti, i dati ufficiali premiano questi progressi: nel 2025 Messina è sesta tra le grandi città italiane per raccolta differenziata (circa 61% medio annuo) e prima nel Sud tra i Comuni oltre i 200.000 abitanti. Ma questa narrazione regge solo se si guarda la superficie. Basta scavare un poco – nei condomini, nelle bollette future, nelle abitudini quotidiane – per scoprire che il sistema si sostiene raccontando gli incassi e nascondendo i costi. E i costi non sono solo economici: sono domestici, sociali, organizzativi e, a breve, anche digitali.

𝙇𝙖 𝙏𝘼𝙍𝙄 “𝙗𝙖𝙨𝙨𝙖”: 𝙪𝙣 𝙖𝙧𝙩𝙞𝙛𝙞𝙘𝙞𝙤 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚 (𝙩𝙚𝙢𝙥𝙤𝙧𝙖𝙣𝙚𝙤)

La TARI non è un prezzo libero: è vincolata al principio europeo del full cost recovery, che impone ai Comuni di coprire integralmente il costo del servizio. Per questo non può diminuire strutturalmente, a meno che i costi non calino davvero. A Messina non è successo in modo permanente: le riduzioni recenti derivano da efficienze, recupero evasione e fondi straordinari. La “TARI bassa” è un effetto contabile, non un risultato stabile. Domanda: quanto durerà?

𝗜𝗹 𝗰𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝘀𝘁𝗼: 𝗶𝗹 𝗰𝗶𝘁𝘁𝗮𝗱𝗶𝗻𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗶𝗻𝘃𝗶𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲

La raccolta porta a porta ha certamente fatto crescere le percentuali ufficiali, ma non ha ridotto il lavoro pubblico: lo ha trasferito nelle case. Ogni famiglia lava, separa, conserva l’umido (spesso per giorni), compra sacchetti e bidoni, pulisce cortili condominiali, paga derattizzazioni private. Questo lavoro domestico non appare in nessun bilancio, ma è ciò che permette al sistema di reggersi. La città non paga meno: paga in tempo, fatica e privacy familiare.

𝗟𝗮 𝗰𝗶𝘁𝘁𝗮̀ “𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗰𝗮𝘀𝘀𝗼𝗻𝗲𝘁𝘁𝗶” 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲 𝗵𝗮 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮

La retorica celebra l’eliminazione dei cassonetti stradali. La realtà? Sono stati frammentati e moltiplicati: mastelli permanenti nei condomini (diventati micro-discariche), contenitori sui marciapiedi dei commercianti, sacchetti “temporanei” ovunque. Le strade sono un mosaico colorato di bidoni, odori e disordine. Il decoro urbano non è migliorato: è stato nascosto dietro la parola “modernità”.

𝗟’𝗲𝘃𝗮𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗿𝗲𝗰𝘂𝗽𝗲𝗿𝗮𝘁𝗮: 𝘂𝗻 𝘀𝘂𝗰𝗰𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗮𝗽𝗽𝗮𝗿𝗲𝗻𝘁𝗲

Si celebra ogni anno il recupero di superfici non dichiarate. Ma più superfici significano più servizio da erogare, e più servizio significa più costi. Gli incassi aumentano, ma anche il perimetro da coprire. È un gioco a somma zero, raccontato come miracolo: si festeggia l’entrata, senza mostrare l’uscita.

𝗜 𝗳𝗼𝗻𝗱𝗶 𝘀𝘁𝗿𝗮𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗮𝗿𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝘀𝘁𝗮𝗺𝗽𝗲𝗹𝗹𝗮 (𝗰𝗼𝗻 𝘀𝗰𝗮𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮)

Parte del servizio non la pagano oggi i cittadini: la pagano PNRR e altri fondi europei. Mezzi nuovi, personale temporaneo, progetti che coprono costi strutturali. È un’illusione che dura finché durano i fondi – scadenza principale nel 2026. Da quel momento, il sistema dovrà reggersi sulle proprie gambe. Riuscirà, senza rincari?

𝗜𝗹 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 𝗽𝗿𝗲𝗰𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶𝘁𝗿𝗮𝘃𝗲

La retorica parla di inclusione e assunzioni (oltre 300 negli ultimi anni). La realtà include contratti brevi, paghe basse e precarietà, con sostituzione di lavoro stabile. Il servizio appare economico perché il costo umano è stato compresso. Ma un sistema che si regge sul lavoro fragile non è virtuoso: è vulnerabile.

Ed è destinato a fallire.

𝗜 𝗰𝗮𝘀𝘀𝗼𝗻𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗹𝗹𝗶𝗴𝗲𝗻𝘁𝗶: 𝗶𝗻𝗻𝗼𝘃𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗼 𝘀𝗼𝗿𝘃𝗲𝗴𝗹𝗶𝗮𝗻𝘇𝗮?

Annunciati per il 2026 (con piloti già in corso in grandi condomini), vengono presentati come passo verso la modernità. Innovazione per chi, esattamente? Non migliorano la differenziata in sé, non riducono costi, non semplificano la vita quotidiana. Servono principalmente a controllare: registrano chi conferisce, quando e cosa, segnalano anomalie, facilitano sanzioni. Sono sensori che generano dati su abitudini e pattern comportamentali.

𝗣𝗿𝗶𝘃𝗮𝗰𝘆, 𝗱𝗮𝘁𝗶 𝗲 𝗽𝗼𝘁𝗲𝗿𝗲

Un cassonetto “intelligente” produce flussi di informazioni: orari, frequenza, tipologia rifiuti, identificazione utenza. Chi li gestisce? Comune, azienda o privati? Non è sempre chiaro. La digitalizzazione dei rifiuti non è neutrale: maschera un ampliamento del controllo sotto forma di progresso.

𝗟𝗮 𝗿𝗶𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗖𝗼𝗿𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗶 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶: 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗶𝘀𝗺𝗼 𝘀𝗼𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗼

La recente riforma che allenta la responsabilità erariale arriva mentre i fondi straordinari scadono. Con controlli più rigidi, molti bilanci mostrerebbero crepe. Il settore rifiuti è tra i più esposti. La tempistica non sembra casuale.

𝗖𝗼𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲

La domanda “la TARI è alta o bassa?” è fuorviante. La TARI è solo l’ultimo anello di una catena: costi spostati sui cittadini, fondi temporanei come anestetico, lavoro precario, narrazioni di virtuosità su basi fragili, strumenti di controllo sofisticati. Non è bassa: è travestita da risparmio. Finché guarderemo solo gli incassi e le percentuali ufficiali, senza vedere i costi – economici, domestici, sociali, umani e digitali – crederemo che il sistema funzioni alla perfezione. Ma il sistema non è autosufficiente: si regge perché i cittadini fanno il lavoro che il servizio non fa più del tutto. E presto lo faranno sotto sorveglianza sempre più capillare.

Un modello diverso è possibile, ma richiede scelte che oggi nessuno vuole assumersi: investire davvero, semplificare davvero. Serve la volontà di costruire un servizio pubblico autentico, non un sistema che vive sulla pazienza dei cittadini e scarica su di loro i costi. Significa smettere di mascherare il controllo da innovazione e, soprattutto, smetterla di colpevolizzare i cittadini mettendoli uno contro l’altro per coprire inefficienze che non sono loro. Significa restituire al servizio pubblico il suo nome, e il suo senso: un diritto, non un obbligo travestito da virtù.

𝗯𝗶𝗹𝗴𝗶𝘂