L’avesse detto: il bel primato della politica sulla giustizia

Ieri, in Senato, è passata quasi in silenzio la riforma che riduce in modo significativo i poteri della Corte dei Conti: l’organo che vigila sulla spesa pubblica e può chiamare a rispondere chi la gestisce male. È andata liscia, senza scandalo né audience, nel momento perfetto: a ridosso delle feste, quando il Paese è distratto da panettoni, cenoni e lamenti sul traffico.
Tecnica antica: se vuoi far passare qualcosa di impopolare, fallo quando nessuno guarda. Così, come pickpocket, hanno infilato la mano nella tasca della democrazia sfilandogli il portafoglio del controllo. In sintesi, la riforma alza la soglia della responsabilità erariale (rendendo strutturale lo “scudo” nato col Covid e prorogato fino al 2025), pone un tetto ai risarcimenti, accorcia i tempi dei controlli preventivi e introduce il silenzio-assenso: la forma più elegante di resa.
Dicono che serve a rendere più “libera” l’azione amministrativa. Di fatto, limita la capacità della Corte di bloccare atti discutibili su appalti, fondi europei o incarichi, riducendo i rischi personali per chi firma. Non è un vantaggio per i cittadini, che continueranno a pagare i danni. È un regalo a chi governa, a ogni livello: Stato, Regioni, Comuni, partecipate. Non è una riforma di destra o di sinistra: piace a chiunque detenga potere e voglia meno controlli.
Il potere, quando può, si fa sempre un regalo.
Così, assistiamo distratti a un’erosione progressiva dei contrappesi dove la democrazia diventa scenografia, resta la parola, svanisce la sostanza e chi governa, agisce con più libertà e meno responsabilità, con i cittadini ridotti a semplici spettatori paganti, non più garanti. Si mantiene la forma, si svuota il contenuto.
Il controllo sui cittadini cresce (grazie a tecnologia e digitale), mentre quello sul potere si affievolisce. La democrazia resta sul palco, ma dietro le quinte si spengono le luci. E il metodo scelto, un decreto legge blindato, senza dibattito pubblico, nel giorno dopo Natale, la dice lunga sulle vere “motivazioni” di questo governo.
Che stavolta non potrà nemmeno accusare EU. È stata una scelta tutta italiana: usare l’ennesima “emergenza” (la burocrazia che frena il PNRR e sappiamo bene che nonostante questo “freno” quanti e quali danni sono stati causati alle nostre città devastate nella viabilità e nel tessuto socio economico), per far passare una norma che allarga i margini di impunità.
È il copione che si ripete: prima il Covid per gli scudi sanitari, ora la “urgenza amministrativa” per quelli erariali. Emergenze vere o presunte diventano il passe-partout per misure liberiste e antidemocratiche che, in tempi normali, incontrerebbero resistenza.
Quando il Parlamento approva in sordina norme che proteggono il potere da ogni rendiconto, si crea un cortocircuito che corrode l’etica pubblica e svuota la credibilità delle istituzioni. A quel punto, votare diventa un atto puramente rituale: il cittadino non sceglie più, ratifica.
Ratifica la propria marginalità, ratifica l’impunità di chi governa, ratifica un sistema che lo considera un suddito pagante, non un garante della cosa pubblica.
E così la democrazia resta in piedi solo come scenografia: un fondale dipinto, buono per le cerimonie e per le dichiarazioni di principio.
Dietro, però, il palcoscenico è già crollato. E chi avrebbe dovuto custodirlo ha spento le luci per primo.
bilgiu