Artisti africani trasformano i rifiuti occidentali in arte e protesta politica

La gestione globale dei rifiuti della plastica e degli apparecchi elettronici ricalca il modello coloniale, in barba al pensiero decoloniale molto diffuso in ambienti accademici occidentali.

La produzione globale di plastica ha raggiunto circa 450 milioni di tonnellate annue, con una crescita costante rispetto ai 2 milioni nel 1950. Si prevede che triplichi entro il 2060. Se in Europa qualche tentativo di riduzione e riciclo fa capolino, l’area Asia-Pacifico non mostra segni di ravvedimento.

La vittima designata è, come al solito, l’Africa, usata un po’ da tutti come discarica infinita.

In diversi paesi africani, Ghana, Tunisia, Kenya, Congo, alcuni artisti usano rifiuti delle discariche per creare opere d’arte che sono al contempo manifesti di protesta politica e critica sociale.

A Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, opera un collettivo artistico che si è dato il nome di “Ndaku Ya La Vie est Belle”, che significa “La Casa della Vita è bella”. Casa sta per collettivo, “La Vie est Belle” indica ironicamente le condizioni di vita del popolo congolese, oltre a essere il titolo di un film del 1987 ambientato in Congo di produzione belga e congolese.

Il collettivo crea costumi e sculture sorprendenti usando rifiuti elettronici riciclati, bottiglie di plastica, metalli scartati e altri materiali trovati per le strade di Kinshasa.

Gli artisti trasformano la spazzatura occidentale in elaborate opere d’arte indossabili, colorate e dall’aspetto quasi robotico, che esibiscono durante performance pubbliche in tutta la città.

La critica politica e sociale è rivolta alle strutture di potere e i fallimenti governativi nel Congo, come altri paesi del Continente Africano, grande discarica di rifiuti elettronici.

L’intento è anche quello di riappropriarsi dello spazio pubblico attraverso la performance art e sfidare il consumismo e l’eredità del colonialismo.

Le performance si svolgono in spazi pubblici, mercati, strade e quartieri, nei quali gli artisti in costume interagiscono con i passanti, creando incontri spiazzanti, soprattutto perché le opere sono esteticamente belle. La loro estetica è simultaneamente futuristica e radicata nella realtà materiale del paesaggio urbano di Kinshasa.

Tutto bello davvero?

Gli artisti africani che lavorano con materiali di scarto spesso ottengono riconoscimento principalmente quando le loro opere vengono esposte in gallerie e musei europei e americani. Il mercato dell’arte globale è dominato da curatori, collezionisti e istituzioni occidentali che decidono quale arte africana è “valida” o “autentica”. Gli artisti possono guadagnare più all’estero che nel proprio paese, creando una dipendenza economica dal circuito occidentale.

L’estetizzazione della povertà africana che trasforma rifiuti in arte può diventare una forma di poverty porn, a disposizione del consumo occidentale.

Il rischio è che l’arte africana con materiali di scarto venga apprezzata come “esotica” o “pittoresca” piuttosto che per il suo vero contenuto politico.

Noi occidentali potremo mai liberarci veramente dallo “sguardo coloniale”?

 

Gian Luigi Corinto, docente di Geografia e marketing agroalimentare Università di Macerata, collaboratore Aduc