di Roberto Malini
Rob Reiner (1947–2025) è stato uno dei grandi autori del cinema americano tra XX e XXI secolo: regista, attore, produttore, ma soprattutto costruttore di immaginari condivisi, capace di parlare a generazioni diverse con un linguaggio accessibile e insieme profondamente etico.
Figlio di Carl Reiner, gigante della comicità ebraico-americana, Rob Reiner è cresciuto in un ambiente in cui l’umorismo era una forma di sopravvivenza, una lente critica sul mondo e sul potere. La sua formazione ebraica — segnata dalla lingua yiddish, dalla memoria della Shoah e da una forte educazione ai valori civili — ha inciso profondamente non solo sulle sue scelte politiche, ma anche sulla sua “narrativa di regia”: nei suoi film, anche nei più leggeri, affiora spesso un pensiero yiddish, fatto di ironia obliqua, autoironia, empatia per i perdenti, sospetto verso l’autorità e capacità di ridere senza cancellare il dolore.
Dopo l’esordio televisivo in All in the Family, dove interpretò il memorabile Michael “Meathead” Stivic — figura di liberalismo critico contrapposta al bigottismo di Archie Bunker — Reiner si impose come regista con una serie impressionante di film diventati classici: This Is Spinal Tap, Stand By Me, The Princess Bride, When Harry Met Sally…. Opere diversissime tra loro, ma unite da una cifra comune: la fiducia nell’umanità imperfetta, nel valore dell’amicizia, della memoria, della parola data, del sentimento non cinico.
Anche quando affrontò generi più cupi (Misery, A Few Good Men, The American President), Reiner non rinunciò mai a una visione morale del racconto. Per lui il cinema non era evasione pura, ma una forma di responsabilità pubblica. Non a caso, parallelamente al lavoro artistico, fu per decenni un attivista politico democratico, impegnato su diritti civili, uguaglianza, matrimonio egualitario, educazione infantile. Amava quella che chiamava “buona politica”: non ideologica in senso astratto, ma radicata nella dignità delle persone.
La sua morte violenta, insieme a quella della moglie Michele Singer, ha scosso profondamente il mondo culturale. A rendere ancora più amaro il momento è stato l’intervento del presidente Donald Trump, che ha scelto di insultarne la memoria con dichiarazioni sprezzanti e mistificatorie, riducendo l’impegno civile di Reiner a una presunta ossessione personale. Un gesto che ha rivelato, ancora una volta, l’incapacità di distinguere tra dissenso politico e malattia, tra critica democratica e odio.
Ma Rob Reiner non sarà ricordato per questo. Lo ricordiamo perché ci ha commosso, emozionato, fatto ridere, fatto sognare. Perché ha dimostrato che si può essere popolari senza essere superficiali, politici senza essere dogmatici, ironici senza essere crudeli. E perché, come lui stesso disse senza esitazioni: I’m a Jew. I was raised a Je (Sono ebreo. Sono stato cresciuto come ebreo). Non come etichetta identitaria, ma come responsabilità morale, culturale e umana.
Illustrazione AI-Digital di R. Malini
