Quando le teorie formulate da filosofi molto illuminati escono dalle pagine dei loro libri per circolare nel mondo reale, si corre il rischio di un colossale fraintendimento che provoca una regressione infantile collettiva. Le difficoltà di applicazione nella vita pratica della teoria della decrescita felice pensata da Bruno Latour, si manifestano chiaramente nel caso della famiglia che vive nel bosco ed educa i bambini senza mandarli a scuola.
Le menti semplici (o in mala fede) hanno subito ridotto i fatti a uno scontro tra lo Stato – per definizione pro-crescita – e una famiglia che vuole praticare la decrescita, rivendicando il diritto di essere felice perché neorurale. La questione non può essere posta solo in astratto e non riguarda solo le scelte di Nathan Trevallion e Catherine Birmingham rispetto ai loro ideali anti-consumismo.
Nella vicenda si intrecciano in modo complesso tre piani ideali: libertà di scelta dei genitori, diritti dei minori e praticabilità concreta di uno stile di vita alternativo ispirato a semplicità e critica al modello di sviluppo.
In Italia i genitori hanno un diritto–dovere all’educazione dei figli e possono scegliere istruzione parentale, educazione in natura, vita fuori dalla rete sociale, finché vengono garantiti istruzione, salute e sviluppo complessivo del minore.
Il diritto alla vita alternativa non è però illimitato: quando la scelta familiare incide su sicurezza, accesso alle cure o socializzazione minima, la libertà genitoriale incontra limiti giuridici e può essere compressa dall’intervento dei servizi e dei giudici.
Nel caso di Palmoli il Tribunale è intervenuto rilevando il rischio per l’integrità fisica e psichica dei bambini, a causa di una casa fatiscente, senza utenze, per il rifiuto di controlli sanitari e il forte isolamento dai coetanei. Insomma: i minori hanno diritto alla salute, ma anche alla vita di relazione.
Il giudice non deve decidere che tipo di vita sia la migliore in senso culturale, ma deve accertare se esiste un danno attuale o un rischio potenziale grave per lo sviluppo del minore. Dal punto di vista giuridico, la decisione dei giudici di allontanare i figli è più che legittima.
Lo stile neorurale della famiglia – autosufficienza, rifiuto del consumismo, centralità della natura – richiama chiaramente l’immaginario della decrescita felice e la critica al modello di sviluppo dominante. Tuttavia nessun orientamento filosofico (decrescita, ecologismo, spiritualità) può valere come scudo giuridico: le idee sono tutelate, ma le pratiche vengono valutate caso per caso in base agli effetti sui diritti fondamentali dei bambini.
Chi decide la soglia tra povertà scelta e precarietà dannosa per un minore?
In termini pedagogici e giuridici esiste una linea tra massima apertura a stili di vita improntati alla decrescita felice (istruzione parentale, natura, bassa tecnologia) purché siano garantiti tre cose non negoziabili per i bambini: istruzione effettiva, salute verificabile e relazioni significative con pari ed adulti di riferimento oltre la famiglia.
Il resto è infantilismo sociale.
Gian Luigi Corinto, docente di Geografia e Marketing agroalimentare nell’Università di Macerata, collaboratore Aduc
