Made in Italy, ombrello bucato che non ripara più

“Made in Italy” è un brand, o meglio è un “country brand” – un marchio-paese: non è il brand di una singola azienda, ma rappresenta una specie di marchio collettivo che ripara sotto il proprio ombrello l’origine geografica e culturale di prodotti e servizi italiani. Con il sottinteso che ogni prodotto marchiato Made in Italy sia migliore di qualsiasi altro al mondo. In passato, si era disposti a concedere qualcosa solo agli orologi svizzeri e alle auto tedesche, roba da ricchi e non per tutti.

Ma oggi come stanno le cose? E soprattutto come saranno in un futuro non tanto lontano? Per esempio, la Cina – la grande fabbrica mondiale di ogni cosa – si può tenere ancora a bada solamente sventolando la bandiera del Made in Italy?

Una definizione classica di brand dice che è un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno, ovvero una combinazione di questi che serve per identificare i beni o servizi di un’impresa e differenziarli da quelli della concorrenza. Modernamente, la definizione è divenuta più raffinata: un brand dipende non solo dall’offerta proveniente da una marca nota ma anche da tutte le associazioni di idee (giudizi e pregiudizi) collegate all’immagine che i consumatori si creano – appunto – consumando. La marca è forte se è forte anche l’immagine che i consumatori si sono costruiti in collaborazione con le imprese.

Le imprese quindi devono lavorare sia sull’offerta materiale sia sull’immagine dei propri marchi proponendosi di occupare un posto distintivo nella mente del consumatore e nel mercato che hanno scelto di presidiare.

Qui in Italia, a lungo si è pensato che dire Made in Italy bastasse per distinguerci nel mondo e che, sempre per esempio, i prodotti provenienti dalla Cina fossero comunque di qualità inferiore. Sembra che si debba smettere di pensare solo in questo modo, se si vuole evitare il completo declino del sistema produttivo italiano.

La Cina dimostra di non temere più la politica dei marchi, italiani o europei che siano. Intanto ha acquisito numerosi marchi e aziende europee negli ultimi anni: sono in mano ai cinesi aziende e marchi come Pirelli, Candy, Bialetti, Krizia, Buccellati, Sergio Rossi (calzature), Ferretti (yacht di lusso), Benelli (motociclette). È in mano cinese anche il marchio dell’olio alimentare Sagra.

Nel settore automobilistico poi, la Cina si è data da fare acquistando Volvo, Lotus e MG, mentre in Germania ha acquisito imprese nel settore della robotica industriale e delle macchine utensili. Sorvoliamo sul settore farmaceutico.

Proprio quello che sta avvenendo nel mercato automobilistico ci dice che la Cina farà una sua politica di brand, introducendo marchi propri, dopo avere acquistato quelli nostri. Lentamente, come costume orientale, ma inesorabilmente.

Nel 2025 in Italia sono complessivamente presenti 18 marchi automobilistici cinesi, tra brand ufficiali e rebrand. I numeri restano ancora contenuti, ma BYD e MG si stanno distinguendo come quelli con le migliori performance di vendita, ma ci sono anche Omoda & Jaecoo, Lynk & Co e Leapmotor e altri.

Il caso di Leapmotor è di fondamentale interesse perché l’azienda opera in partnership con Stellantis (ah.. la vecchia, amata FIAT!) che detiene il 20% del capitale e vende in Italia una citycar elettrica che costa meno di 20 mila euro. Su questo il dibattito è apertissimo tra chi vede Stellantis come un coraggioso presidio per il controllo dell’ingresso di marchi cinesi e chi la considera come il cavallo di Troia che ucciderà definitivamente l’industria italiana, non solo quella delle auto.

Non ci resta che la pastasciutta, fatta con le farine canadesi e condita con il pomodoro di Pachino, selezionato geneticamente in Israele.

 

 

Gian Luigi Corinto, docente di Geografia e marketing agroalimentare Università di Macerata, collaboratore Aduc