I giovani non si riconoscono più in un’idea di religiosità basata su regole, imposizioni o rituali vuoti di significato

di Andrea Filloramo

Negli ultimi anni si parla spesso di una “crisi della fede” tra i giovani che sarebbe confermata dalle statistiche e dalle ricerche più recenti che descrivono un netto calo della pratica religiosa tradizionale in tutta Europa.

Secondo uno studio, infatti, del “World Economic Forum” (2018), in 12 Paesi su 22, oltre la metà dei giovani tra 16 e 29 anni si dichiara “senza religione”: in Francia il 64 %, nel Regno Unito il 70 %, nella Repubblica Ceca addirittura il 91 %. In Italia, la tendenza è analoga ma più moderata. Solo l’8 % dei giovani tra i 18 e i 19 anni partecipa regolarmente alla Messa domenicale, contro il 25 % del 1992 e il 17 % del 2006.

Anche i sacramenti subiscono un calo costante. Riferendoci particolarmente all’Italia, la Conferenza Episcopale Italiana, nel suo “Annuario delle statistiche ecclesiastiche” (2020), segnala che, tra il 2010 e il 2020, i battesimi sono diminuiti del 28 %, i matrimoni religiosi del 33 % e le prime comunioni del 19 %.

Se, però, facciamo una lettura più approfondita dei dati e dei comportamenti religiosi giovanili, scopriamo una realtà diversa e più sfumata: la fede non è scomparsa, ma sta cambiando volto.

Ciò indica una crisi della pratica sacramentale, ma non necessariamente della fede; infatti, nonostante la diminuzione della pratica, i giovani non hanno smesso di credere.

Il Centro Studi Toniolo, nel “Rapporto Giovani 2024”, pertanto, rileva che circa il 60 % dei giovani italiani afferma di credere in Dio e oltre la metà dichiara di pregare almeno occasionalmente. In altre parole, la fede resta viva, non passa più automaticamente per le vie tradizionali, ma si trasforma in un cammino personale e scelto, meno legato all’abitudine e più alla convinzione interiore. È una spiritualità, quindi, più fluida, relazionale e spesso connessa a valori etici e sociali, come la pace, la giustizia e la solidarietà.

Le cause di questa trasformazione sono molteplici.

Oggi – come sappiamo – si afferma sempre di più la cultura postmoderna che tende a rifiutare le appartenenze rigide; la religione viene trasmessa come scelta individuale e non più come “tradizione familiare”; si cerca l’autenticità e la libertà di pensiero; la sessualità è ricondotta alla sua naturalità, pur nel rispetto della consapevolezza e delle responsabilità personali.

La sessualità non è, quindi, più vista come qualcosa da giudicare o controllare, ma come una dimensione da esplorare liberamente, nel rispetto di sé e del consenso reciproco. Parlare di sesso non significa più infrangere un tabù, ma rivendicare il diritto alla libertà, alla conoscenza e all’espressione del proprio corpo e dei propri desideri.

E’ anche un dato ormai certo: molti giovani percepiscono la Chiesa come un’istituzione distante o poco attenta ai loro problemi ma non per questo rinunciano al bisogno di spiritualità. Lo esprimono attraverso nuove vie di fede vissuta: volontariato, impegno sociale, cura del creato, attenzione agli ultimi. La religione si sposta così dal piano rituale a quello esperienziale, trasformandosi da appartenenza obbligata a scelta esistenziale.

La loro fede non passa più necessariamente attraverso i riti tradizionali. Molti giovani rifiutano o mostrano scarso interesse verso le devozioni, le pratiche di culto rituale o le forme di pietà formale che loro percepiscono come “vuote” o troppo legate alla tradizione anziché alla vita concreta.

E’ raro o è impossibile che ci siano dei giovani che recitano il rosario. Le decine di “Ave Maria” per loro sono soltanto una litania monotona, poiché sono abituati a stimoli veloci, musica, immagini e cambi di ritmo continui. Molti non hanno un legame diretto con il linguaggio religioso tradizionale: termini come “mistero”, “grazia”, “frutto del grembo” possono sembrare arcaici oppure astratti.

A tal proposito, secondo il Centro Studi Toniolo, “Rapporto Giovani 2024”, circa il 55 % dei giovani italiani dichiara di non partecipare mai a celebrazioni di culto locale. La stessa tendenza è confermata in Francia e Germania, dove l’interesse dei giovani per devozioni è quasi scomparso, mentre cresce l’adesione a percorsi di spiritualità personale, meditazione, preghiera autonoma e azione concreta per il bene comune.

Questa resistenza ai riti tradizionali, alla cui base vi sono processi di secolarizzazione, crisi di fiducia nelle istituzioni religiose, percepite spesso come lontane dai bisogni e dal linguaggio dei giovani, indica un cambiamento di linguaggio religioso: i giovani, cioè, cercano esperienze che siano significative, partecipative e vicine alla loro vita quotidiana.

La fede si sposta così dal piano cerimoniale a quello esperienziale e relazionale, dove l’incontro con Dio si misura più nell’impegno concreto e nella fraternità che nelle pratiche rituali.

Consapevole di questi cambiamenti, la Chiesa sta cercando di adattare linguaggi, metodi e percorsi. Eventi come il Giubileo dei Giovani 2025, svoltosi a Roma dal 28 luglio al 3 agosto, hanno radunato decine di migliaia di ragazzi da tutto il mondo, invitandoli a “riempire lo zaino di docilità e meraviglia”. Iniziative simili — come le Giornate Mondiali della Gioventù, il Giubileo dei giovani o i pellegrinaggi diocesani — rappresentano luoghi di incontro e di fede condivisa, capaci di far percepire una Chiesa viva e accogliente.

Non sempre, però, la Chiesa – occorre dirlo – incoraggia o riesce a incoraggiare un rallentamento oppure una riflessione critica sul culto devozionale tradizionale, che spesso viene tramandata più per consuetudine che per autentica comprensione teologica. Non sempre, perciò, orienta verso una pratica comunitaria, formativa e centrata sulla fede viva, piuttosto che sulla ripetizione rituale.

Riuscirà in questo sforzo Leone XIV?

Non lo sappiamo.

Seguendolo, attraverso la televisione e i media, abbiamo l’impressione che egli nutra un profondo amore per la liturgia, cuore pulsante della vita della Chiesa e, al tempo stesso, mostri una grande attenzione per le devozioni. Forse grazie alla sua esperienza missionaria e pastorale in Perù, riconosce nella pietà popolare un segno concreto di fede vissuta: una spiritualità semplice e autentica che radica il Vangelo nei luoghi della gente, nelle loro tradizioni, nei gesti quotidiani e nel linguaggio del cuore.

In sintesi: una Chiesa capace di dialogare, accogliere e camminare insieme potrà parlare davvero alle nuove generazioni. È infatti nel linguaggio della prossimità e dell’ascolto che i giovani riconoscono il suo volto, non come istituzione distante o moralizzante, ma come comunità viva che accompagna, comprende e condivide le loro domande, le loro fragilità e le loro speranze. Una Chiesa che non teme di mettersi in cammino con loro, accettando di imparare tanto quanto insegna, potrà diventare spazio di incontro vero e di rinascita spirituale.

In sintesi: I giovani non si riconoscono più in un’idea di religiosità basata su regole, imposizioni o rituali vuoti di significato. Sentono che la spiritualità non può essere ridotta a un insieme di dogmi da accettare passivamente, ma deve essere una ricerca personale, un cammino di senso, di relazione e di autenticità. Non è mancanza di fede, ma desiderio di un dialogo più diretto con il divino, svincolato dalle mediazioni istituzionali o dalle strutture che, a volte, appaiono a loro distanti dalle esperienze reali della vita.