La strumentalizzazione del progetto Ponte diviene utile solo ai politici e ai media (a loro subordinati) per suscitare consenso

di Andrea Filloramo

Nessuno può negare che molti siciliani si lascino affascinare dall’idea del Ponte sullo Stretto proprio perché “amano il mito”, cioè amano l’impossibile, che si traduce nel bisogno di trascendere la contingenza attraverso il racconto.

Basta guardare alle leggende classiche legate allo Stretto, come, per esempio alla leggenda di Scilla e Cariddi, che invita a riflettere sulla condizione umana di fronte alle scelte difficili che la vita nell’isola presenta, costringendo a fare sacrifici e a navigare tra rischi e avversità.

Si aggiunga il mito di Colapesce, con cui si esprime il legame simbiotico dell’uomo di Sicilia con il mare. Colapesce rappresenta il rinnovarsi della conferma della dipendenza della vita dall’acqua e quindi, dal mare che separa e al tempo stesso però unisce.

In parole povere, In Sicilia c’è un immaginario collettivo, fatto di identità isolana, radici storiche, senso di esclusione dal continente, che dà forza a un’idea di riconnessione fisica come simbolo di progresso e di “normalità”.

Appartiene da alcuni decenni a tale immaginario anche il Ponte sullo Stretto, che non è solo un progetto, ma è un sogno sospeso tra ingegneria e desiderio di riscatto, che dovrebbe avvicinare e unire   ma realizzarlo – si sa – non è facile e forse è anche impossibile.

Se osserviamo bene, il discorso sul mito applicato al Ponte sullo Stretto è presente anche nel dibattito che facilmente si rintraccia anche in alcuni giornali che appoggiano il progetto del Ponte.

In un articolo, infatti, de “La Gazzetta del Sud”, si parla esplicitamente del ponte come “redentore” per Messina, dove lo Stretto non è visto solo come un tratto di mare ma un paesaggio carico di mito e di memoria.

La rivista Il Mulino parla chiaramente di “mitologia del Ponte”, perché l’opera è ormai considerata da molti più come sogno o simbolo che come realtà imminente.

Non mancano quanti opinano, infine, che il Ponte possa essere un mito consolatorio. Pur conoscendo le difficoltà tecniche, e burocratiche, essi, infatti, sperano che l’idea del ponte dia speranza, orgoglio, prospettive e una vita migliore per gli abitanti dello Stretto.

Da tenere presente, però, che oggi un mito può nascere per generazione spontanea, ma anche – e ciò accade spesso – per manomissione culturale, per cui “essere ingannati” attraverso un mito è un rischio politico e sociale che facilmente si corre.

Ciò accade particolarmente quando viene idealizzata la realtà. In tal caso il   mito, come quello del Ponte sullo Stretto, tende a semplificare senza tenere conto degli ostacoli tecnici, dei costi enormi, delle questioni e dei danni ambientali, sismiche, logistiche e ancora degli enormi disagi che possono durare per molti anni ma che i politici dicono che sono stati già superati o che saranno superati in itinere.

Chiara è a questo punto la strumentalizzazione del progetto Ponte, il cui mito, infatti, diviene utile solo ai politici e ai media a loro subordinati, per suscitare consenso, senza che ci siano dietro veri piani realistici e sostenibili.

Da osservare che “amare il mito” non vuol dire necessariamente, – – come si può pensare – essere ingenui, essere cioè incapaci di riconoscere inganni o pericoli.

Molti riconoscono le criticità ma accettano che il mito abbia un valore, anche come spinta verso progetti e discussioni che forse altrimenti non avverrebbero. In tal caso, riconoscerne il valore non significa regredire all’irrazionale, ma comprendere che la razionalità umana è più ampia del calcolo politico.

Il mito, infatti, può agire come stimolo intellettuale e morale e
funziona come una matrice di possibilità. Come nota Ricoeur, che   è da considerare uno dei maggiori protagonisti della coscienza filosofica del Novecento, “il simbolo dà da pensare” e, pertanto, non impone una verità, ma provoca il pensiero.

Amarlo, dunque, vuol dire accettare il rischio della complessità, cioè il rischio di vivere tra l’immaginario e il reale, tra la fede e il dubbio, tra l’impossibile e il possibile.

In tal caso il mito diviene slancio poetico, che, però, in politica – se non è accompagnato da responsabilità e verità- diventa necessariamente illusione, cioè percezione falsa, aspettativa vana e visione irrealizzabile.

Per questo, il compito dell’analisi critica non è solo denunciare gli inganni, ma comprendere i bisogni simbolici e sociali che essi intercettano. Solo partendo da tale comprensione è possibile costruire un discorso politico nuovo, capace di unire verità e passione, realtà e speranza.

Un discorso politico autenticamente nuovo è quello che non teme la complessità, che riconosce il limite ma non rinuncia alla visione e diviene un linguaggio capace di farsi carico delle ferite del presente trasformandole in responsabilità.

Solo da questa profondità può nascere una parola politica che non manipola, ma genera fiducia.

Dimostrando onestà, lealtà e competenza politica, comunicando in modo trasparente e ascoltando attivamente, sarà evidente che il Ponte sullo Stretto di Messina non potrà mai risolvere alcun problema per la Sicilia e non rappresenta una necessità impellente. Investire, pertanto, in soluzioni alternative più sostenibili e meno costose potrebbe essere una scelta più saggia per il futuro del nostro Paese.

Concludendo: non si esclude che la decisione di proporre soluzioni alternative possa scaturire dal pronunciamento della Corte dei Conti qualora rigettasse – e ci sarebbero i motivi – il progetto del Ponte e qualora i ricorsi giudiziari ambientali dovessero avere successo. In tal caso il complesso degli elaborati tecnici relativi al Ponte dovrebbe essere rifatto o abbandonato. Allora anche la pressione pubblica, le opposizioni locali e le associazioni ambientaliste – che vanno al di là del mito – possono essere per la stessa Corte fattori determinanti.