2003: il latte che non c’era. Parmalat

Parmalat, il cappuccino più amaro della finanza italiana Tra i grandi scandali finanziari, il caso Parmalat resta uno dei più maleodoranti. Quella che negli anni Sessanta era nata come una rispettabile impresa di famiglia, specializzata in confezioni di latte a lunga conservazione, si è trasformata – quattro decenni dopo – in uno dei maggiori scandali societari d’Europa.

Dicembre 2003: il “re Mida del latte”, Calisto Tanzi, fino a poco tempo prima celebrato come simbolo dell’imprenditoria emiliana, diventa improvvisamente il protagonista di un crac da manuale. Nel giro di poche settimane, la “mucca d’oro” si rivela in realtà una stalla vuota: un buco di bilancio da circa 14 miliardi di euro inghiotte l’azienda e con essa i risparmi di migliaia di famiglie italiane.

Il default, ribattezzato il “caso Enron all’italiana”, oltre a un fallimento industriale fu anche un terremoto sistemico: mise in ginocchio risparmiatori e obbligazionisti, imbarazzò banche e istituzioni, e soprattutto scoperchiò un vaso di Pandora fatto di complicità, trucchi contabili creativi e controllori che – guarda caso – non videro nulla.

Origini umili e crescita sfrenata di un impero La storia di Parmalat comincia nel 1961, quando un giovane e ambizioso Calisto Tanzi apre un piccolo caseificio a Collecchio, provincia di Parma. Il nome originario era “Dietalat” – un marchio che, diciamolo, non prometteva grandi emozioni. Ma in poco tempo la trovata che cambierà tutto: il latte UHT in tetrapak, quello che resisteva sugli scaffali per settimane senza batter ciglio. Negli anni Settanta fu una rivoluzione: gli italiani, abituati alla bottiglia di vetro consegnata dal lattaio, scoprirono il latte “moderno” e Parmalat ne divenne sinonimo.

Tanzi, figlio di una famiglia di imprenditori locali, seppe costruirsi l’immagine di industriale innovativo, rassicurante e quasi paterno: uno di cui fidarsi, insomma. Ma dietro i sorrisi e i tetrapak, il giovane imprenditore aveva ambizioni molto più grandi.

Negli anni Ottanta e Novanta, Tanzi si lanciò in una corsa senza freni. Nel 1989 Parmalat arrivò in Borsa con una mossa finanziaria degna di nota (un reverse takeover, che permise l’ingresso sul listino senza la classica IPO). Da lì in poi partì una frenetica campagna di acquisizioni a tappeto: industrie lattiero-casearie in Europa, America Latina, Africa… insomma, il latte Parmalat sgorgava ormai dai rubinetti di mezzo mondo.

Ma Tanzi non si accontentò: volle diversificare. E così, mentre i cartoni di latte facevano la fortuna del gruppo, Parmalat acquistava il Parma Calcio, il tour operator Parmatour e persino un’emittente televisiva, Odeon TV. Un impero eterogeneo, dove al latte si affiancavano palloni, pacchetti vacanze e programmi televisivi. Tutto rigorosamente finanziato da una reputazione stellare… e, come vedremo, da un uso della finanza più spregiudicato di un prestigiatore da fiera.

Certo, non mancavano già allora le crepe. Parmalat restò sempre una “cosa di famiglia”: Tanzi accentrava ogni decisione, circondato da fedelissimi, senza aprire le porte a manager internazionali di peso. Le acquisizioni si susseguivano senza sosta, spesso riguardando aziende decotte o indebitate, e il motore di questa espansione era alimentato da una pioggia di obbligazioni emesse a ripetizione.

Sulla carta, però, tutto filava liscio: i bilanci Parmalat mostravano riserve di liquidità stratosferiche e Tanzi continuava a promettere solidità e crescita senza fine. Era l’immagine perfetta di un campione nazionale in ascesa. Solo che quelle fondamenta – già allora – somigliavano più alla panna montata: gonfie, bianche, ma fragili. Qualcosa non quadrava, anche se in pochi, all’epoca, osavano dirlo ad alta voce.

 

Bilanci falsi e debiti nascosti: i trucchi contabili Dietro la facciata della “mucca da soldi” Parmalat, il latte era già bello che andato a male. Per oltre un decennio, Calisto Tanzi e il suo fidato direttore finanziario Fausto Tonna imbastirono una delle più spettacolari opere di illusionismo contabile della storia economica italiana.

Il trucco era semplice nella logica, complesso nell’esecuzione: gonfiare le attività, nascondere le passività.

Voilà.

Il tesoretto fantasma da 4 miliardi

Il caso più eclatante riguarda la celebre Bonlat Financing, società offshore con sede alle Cayman. Nel 2003, Parmalat dichiarava di avere 4 miliardi di euro di liquidità depositati presso Bank of America. Peccato che quei soldi non esistessero nemmeno nei sogni di Tanzi. A certificare il tutto c’era un documento bancario… falsificato con scanner e fotocopie, roba che oggi non passerebbe nemmeno all’esame di grafica di un liceo. Ma per anni nessuno si accorse di nulla: quei miliardi fantasma rassicuravano investitori, obbligazionisti e persino le banche, mentre la Parmalat reale affondava nei debiti fino al collo.

 

Uno schema piramidale in salsa emiliana

La macchina finanziaria funzionava così: Parmalat emetteva obbligazioni a raffica, raccogliendo denaro fresco dai risparmiatori. Con quei fondi non si finanziava innovazione, ma si tappavano i buchi dei debiti in scadenza. Un gioco di prestigio che aveva molto più in comune con lo schema Ponzi che con la sana gestione aziendale.

E non mancavano complicità illustri. Alcune banche d’affari aiutarono a confezionare operazioni dall’aroma decisamente torbido. Memorabile il caso di un prestito obbligazionario da 420 milioni di euro strutturato da UBS: di questa cifra, solo 110 milioni finirono effettivamente nelle casse Parmalat. Gli altri 290 milioni? Tornarono alla banca sotto forma di costosissime polizze assicurative contro il default del debitore. In pratica: Parmalat si indebitava, ma il grosso del denaro non arrivava mai a lei.

Il risultato finale era un bilancio da manuale del perfetto illusionista:

– debiti colossali camuffati da investimenti,

 

– perdite mascherate da utili,

 

– una leva finanziaria fuori controllo.

Complicità ai vertici: il ruolo di management e revisori Come può una truffa miliardaria andare avanti per oltre dieci anni senza che nessuno se ne accorga? Semplice: serve una combinazione letale di management spregiudicato e controllori distratti. E Parmalat fu un caso da manuale.

Al centro della scena, ovviamente, c’era Calisto Tanzi, il grande regista della frode. Accanto a lui, fedelissimi come Fausto Tonna, direttore finanziario e maestro di “magia contabile”, e vari membri della famiglia Tanzi, ben piazzati ai vertici aziendali. Le decisioni finanziarie venivano prese in un circolo ristretto e poco incline alla trasparenza, mentre gli organi di vigilanza interna – i collegi sindacali – latitavano.

Ma il vero spettacolo, col senno di poi tragicomico, lo offrirono i revisori contabili. Due colossi internazionali, Grant Thornton e Deloitte & Touche, misero il timbro su bilanci che oggi fanno sorridere amaramente: persino i famosi 3,95 miliardi di euro fittizi dichiarati in Bank of America vennero certificati senza che nessuno verificasse se quei soldi fossero davvero lì. Possibile che nessuno abbia pensato di fare una telefonata, o almeno di dare un’occhiata all’estratto conto? Evidentemente no. Il parallelo con la vicenda Arthur Andersen–Enron negli Stati Uniti è immediato: quando i guardiani del cancello si trasformano in passacarte, il cancello rimane spalancato.

E poi c’erano le banche. Molti grandi istituti – italiani e stranieri – erano ben felici di collocare i bond Parmalat ai propri clienti, mentre continuavano a intrattenere rapporti proficui con l’azienda stessa. Un classico caso di conflitto d’interessi: perché “staccare la spina” a un debitore che ti garantisce commissioni e affari? Meglio chiudere un occhio.

Gli analisti finanziari non si dimostrarono più coraggiosi. Unica eccezione degna di nota fu Merrill Lynch, che nel 2002 osò definire i bilanci Parmalat “non trasparenti”. Una voce fuori dal coro, prontamente ignorata da tutti gli altri. Il business, dopotutto, non si ferma per un sospetto di stonatura.

Il risultato? L’intero sistema – manager, sindaci, revisori, banche, analisti – scelse di credere alla favola di Parmalat. Una fiaba che parlava di ricchezza e solidità, ma che si sarebbe conclusa come tutte le fiabe mal raccontate: con un brusco risveglio.

Natale col botto: quando il latte finì sotto l’albero (e non era un regalo) La fine di Parmalat arrivò all’improvviso, nell’inverno del 2003, anche se i presupposti del disastro covavano da anni. A dicembre, il gruppo di Collecchio non riuscì a rimborsare una tranche da 150 milioni di euro di obbligazioni in scadenza. Un dettaglio apparentemente tecnico, ma che rivelava un paradosso enorme: come poteva un’azienda che dichiarava miliardi in cassa non avere abbastanza liquidità per onorare una cifra relativamente modesta? La domanda fece scattare l’allarme.

Il titolo Parmalat crollò in Borsa fino alla sospensione, la Consob pretese chiarimenti immediati, le banche creditrici iniziarono a sudare freddo e nominarono come “pompiere” il manager Enrico Bondi, con l’ingrato compito di capire se ci fosse ancora qualcosa da salvare.

Il colpo di scena del 19 dicembre

La verità esplose il 19 dicembre 2003: Bank of America rispose ufficialmente alle richieste di chiarimento dichiarando che Parmalat non deteneva affatto 4 miliardi di euro presso di loro. Il documento che attestava quei depositi era un falso da manuale: scanner, fotocopie e fantasia contabile avevano prodotto un pezzo di carta che fece il giro del mondo. Con quella breve nota, la banca americana fece crollare il castello di carte.

Pochi giorni dopo, il 24 dicembre 2003, mentre gli italiani pensavano al cenone, Parmalat dichiarava insolvenza: il gruppo non era in grado di far fronte a circa 13 miliardi di dollari di debiti. Nel giro di una settimana, un colosso ritenuto solido si era liquefatto, lasciando dietro di sé un cratere finanziario.

La “Enron europea”

L’onda d’urto fu devastante. La vicenda finì sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, guadagnandosi il titolo di “Enron europea”. Tanzi, inizialmente scomparso, fu arrestato il 27 dicembre 2003 mentre rientrava frettolosamente dall’estero. Nel frattempo, emergevano dettagli sempre più incredibili: il tesoretto non esisteva, i debiti reali sfioravano i 14 miliardi di euro – una cifra che alcuni paragonarono ironicamente al default dell’intera Argentina nel 2001.

I giudici definirono Parmalat “la più grande fabbrica di debiti del capitalismo europeo”. Per migliaia di famiglie italiane, che avevano investito nei bond del gruppo, fu una rovina totale: i loro risparmi trasformati in carta straccia.

Risparmiatori in lacrime: quando il bond diventa yogurt scaduto Il crac Parmalat fu uno tsunami sul risparmio privato italiano e sulla fiducia nei mercati finanziari. Le prime vittime furono, naturalmente, gli azionisti e gli obbligazionisti.

Per i piccoli azionisti, la tragedia fu immediata: le azioni Parmalat si azzerarono dall’oggi al domani. Carta straccia, patrimonio volatilizzato, addio ai sogni di dividendi. Ma il dramma più grande colpì gli obbligazionisti, circa 135.000 risparmiatori – in gran parte pensionati e famiglie – convinti dalle banche a comprare obbligazioni Parmalat considerate “tranquille”. Quei bond “sicuri” si trasformarono in spazzatura finanziaria: in totale, oltre 7 miliardi di euro bruciati in un colpo solo.

Da obbligazionisti prudenti ad azionisti forzati Grazie all’intervento del commissario straordinario Enrico Bondi, gli obbligazionisti ottennero un parziale risarcimento… trasformandosi però in azionisti involontari della “nuova Parmalat” rilanciata dopo il fallimento. Insomma, chi pensava di aver investito in obbligazioni tranquille si ritrovò improvvisamente a fare il piccolo speculatore di Borsa.

Per chi vendette le azioni a Lactalis nel 2011, il recupero fu mediamente intorno al 40–50% del capitale investito. Un contentino amaro. Molti altri, che non parteciparono alle operazioni di rilancio o si persero nei meandri delle cause legali, recuperarono ancora meno o nulla. Dieci anni dopo il crac, migliaia di famiglie erano ancora all’asciutto. In pratica, Parmalat bruciò i risparmi di una generazione, minando la fiducia verso l’intero mercato delle obbligazioni corporate vendute allo sportello.

Un clima di sospetto sul mercato

L’effetto sistemico fu notevole. Dopo Parmalat – e il crack Cirio dell’anno precedente – gli investitori cominciarono a guardare con sospetto qualsiasi bond italiano. Piazza Affari visse mesi di forte volatilità, mentre il collocamento disinvolto di titoli rischiosi ai clienti retail divenne un tema esplosivo di dibattito politico e finanziario.

Per evitare il collasso totale, nel febbraio 2004 venne varata in fretta e furia la “legge Marzano”, che permise di avviare un’amministrazione straordinaria e salvare così l’attività industriale e migliaia di posti di lavoro. Grazie a questa misura, Parmalat sopravvisse come azienda e, tra mille traversie, venne infine acquisita dal colosso francese Lactalis nel 2011.

Ma se le fabbriche tornarono a produrre, la fiducia dei risparmiatori rimase molto più difficile da ricostruire. Perché i debiti possono essere ristrutturati, le aziende possono rinascere… ma i risparmi persi non tornano più indietro.

Dal tribunale alla legge: il latte versato non si raccoglie, ma almeno si regola Il crac Parmalat non si concluse con il default: aprì la strada a una saga giudiziaria durata oltre dieci anni, con migliaia di parti civili e procedimenti ramificati a livello internazionale.

Al centro della scena, ovviamente, Calisto Tanzi, chiamato a rispondere dei reati più gravi del codice penale societario: bancarotta fraudolenta, aggiotaggio (cioè manipolazione del mercato) e associazione a delinquere. Un curriculum giudiziario di tutto rispetto.

I processi furono lunghi e complessi, ma alla fine la giustizia arrivò al dunque:

– Tanzi venne condannato in via definitiva a 17 anni e 5 mesi di reclusione, pena confermata dalla Cassazione nel 2014.

 

– Il suo braccio destro, Fausto Tonna, incassò condanne intorno ai 9 anni.

 

– Una nutrita schiera di dirigenti, membri del collegio sindacale e revisori dei conti riportò condanne, pene accessorie o transazioni.

 

La Corte d’Appello di Bologna, nel 2012, definì Tanzi e Tonna i “principali artefici del dissesto”. Tanzi, nel frattempo, tentò un tardivo mea culpa, ammettendo di portare “un peso indelebile” per le sofferenze causate. Parole che non evitarono né la severa condanna né la sua definitiva trasformazione in simbolo della mala-finanza italiana.

 

Le riforme: quando l’Italia copiò la Sarbanes-Oxley Se dal punto di vista penale la saga fu lunga e dolorosa, dal punto di vista normativo Parmalat ebbe un “merito”: costrinse il legislatore italiano a correre ai ripari.

 

Nel 2004 arrivò la cosiddetta “legge salva Parmalat”, che introdusse un regime di amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi, così da evitare liquidazioni caotiche con effetti domino sul sistema.

 

Nel 2005, invece, toccò alla più organica “Legge sul Risparmio” (L. 262/2005), pensata come una sorta di versione italiana della Sarbanes-Oxley Act americana post-Enron. Le novità principali furono:

 

– maggiori poteri alla Consob,

 

– istituzione di un’autorità di vigilanza sulla revisione contabile (affidata alla Consob stessa),

 

– obbligo di rotazione delle società di revisione,

 

– irrigidimento delle pene per i reati finanziari,

 

– rafforzamento dei controlli societari interni.

 

Insomma, se i risparmiatori persero miliardi, almeno il legislatore ne ricavò un manuale di errori da non ripetere. Il crack Parmalat divenne così un case study obbligato nelle università, nei corsi di finanza e persino nei manuali di diritto societario.

 

Perché, come sempre accade in questi casi, il latte versato non si raccoglie. Ma almeno si può cercare di mettere un tappo più stretto alla bottiglia.

Lezione di latte andato a male: come riconoscere i campanelli d’allarme La parabola di Parmalat offre lezioni preziose – pagate a caro prezzo – per investitori, regolatori e operatori finanziari. A distanza di anni, la domanda resta la stessa: come avremmo potuto riconoscere i segnali di allarme? E, soprattutto, come evitare che simili tragedie finanziarie si ripetano?

Ecco alcuni spunti che il caso Parmalat ci lascia in eredità:

– Diffidare dei rendimenti “troppo belli per essere veri”

Parmalat offriva bond con cedole del 6–8%, venduti come investimenti sicuri. Un rendimento insolitamente alto per un’azienda alimentare avrebbe dovuto far suonare più di un campanello. Se un titolo promette cedole ricche senza rischi apparenti, quasi sempre nasconde qualcosa – e non è un cioccolatino nell’uovo di Pasqua.

 

– Attenzione ai bilanci poco trasparenti Già un anno prima del crack, alcuni analisti avevano bollato i conti Parmalat come opachi. Un’azienda che dichiara miliardi in cassa ma non riesce a ripagare debiti minimi, o che compra a destra e a manca senza flussi di cassa coerenti, merita più dubbi che fiducia. I numeri scintillanti spesso sono solo fumo.

 

– Occhio alle operazioni “creative”

Veicoli offshore, derivati incomprensibili, bond strutturati: Parmalat ne fece largo uso. Una società industriale che sembra dedicare più tempo alla finanza acrobatica che al proprio core business è un segnale che qualcosa non va.

 

– Diversificare sempre

Tantissimi risparmiatori avevano investito buona parte del loro patrimonio solo in bond Parmalat (o Cirio, poco prima). Il risultato è stato devastante. La lezione è antica quanto saggia: mai mettere tutte le uova nello stesso paniere.

 

Morale della favola: meglio una domanda in più oggi che lacrime domani La vicenda Parmalat resta un monito nella storia della finanza italiana. Un’azienda simbolo, passata da “mucca da soldi” a icona del risparmio tradito, che ha messo a nudo le debolezze di un intero sistema.

Per risparmiatori e investitori retail, ricordare Parmalat significa non farsi sedurre solo dai numeri scintillanti, ma chiedersi sempre: sto ignorando qualche campanello d’allarme?

Se Enron ha insegnato all’America che anche i giganti possono crollare, Parmalat ha insegnato all’Italia che perfino una scatola di latte può trasformarsi in una bomba finanziaria.

 

Alessio Vannucci, consulente finanziario indipendente. collaboratore Aduc