
di Andrea Filloramo
Messina respira tra mare e cielo, sospesa tra memoria e presente. Qui, il vento dello Stretto porta con sé storie di navi e marinai, di popoli che hanno attraversato il Mediterraneo e hanno lasciato tracce indelebili nella città. I Greci la fecero nascere, i Romani la resero alleata, gli Arabi la insidiarono, i Normanni la fortificarono. Federico II vi lasciò l’impronta imperiale, ma gli Spagnoli la punirono per aver osato ribellarsi. I terremoti e le pestilenze più volte la piegarono. Nel 1908 la terra tremò così forte da quasi cancellarla, causando ben 80.000 morti, eppure, come l’araba fenice, Messina risorse, bella, fiera e luminosa, custodendo i miti di Scilla e Cariddi e continuando a guardare il mare, ponte naturale insostituibile tra la Sicilia e il mondo.
Oggi, però, Messina, pur avendo questa grande storia, sembra parlare a un mondo distratto e non riesce a trasmettere quelle forti sensazioni che si godono nel sapere di avere lo Stretto, che è un luogo unico al mondo, dove la natura, la storia e il mito si intrecciano in uno scenario di straordinaria bellezza, dove le acque cambiano colore continuamente, dal turchese al blu profondo, con riflessi argentati dati dalle correnti, dove le spiagge di Capo Peloro e Ganzirri offrono scorci suggestivi, con i laghetti costieri popolati da uccelli migratori.
Messina oggi, ovverossia da molto tempo, si è piegata totalmente alla “politica fittizia”, che non governa ma recita, che non affronta i nodi della realtà ma li maschera con slogan e scenografie, le cui priorità, quindi, sono dettate solo dall’apparenza, che trascura i problemi reali, che ha scarso rispetto per i vincoli ambientali e paesaggistici, che propone la cementificazione e la perdita di identità storica dei centri urbani, che fa nascere periferie dormitorio prive di servizi essenziali, che vuole lo sfruttamento edilizio a scapito della vivibilità, che incentiva l’arricchimento di pochi soggetti a fronte di un peggioramento delle condizioni collettive.
Questa politica propone e senza consenso di chi abita in loco, delibera la costruzione di un costosissimo Ponte sullo Stretto, il ponte più lungo del mondo, un’opera che promette progresso, ma rischia di trasformare la città in un corridoio, un passaggio veloce che ignora la sua anima e non si rende conto che il vero ponte da costruire sarebbe quello tra la città e se stessa: tra storia e futuro, tra persone e opportunità, tra memoria e vita quotidiana.
Per alcuni messinesi il cemento del ponte appare come un’illusione di grandezza.
Essi non pensano che la vera grandezza di Messina stia nel suo respiro antico e moderno insieme, in quanto non è solo un punto da collegare, ma è una poesia scritta tra la terra e il mare, un racconto che merita ascolto, cura e rispetto.
Prima ancora di costruire, occorre fermarsi ad ammirarla, a comprenderla, a lasciarle spazio per respirare.
La domanda è d’obbligo: “Perché i messinesi non si ribellano a quello che molti ritengono sia un progetto orientato più al consenso che alla strategia o alla sostenibilità?”
La risposta a questa domanda può essere data solo da chi in quella città abita o dove è nato o da chi ha trascorso una certa parte della sua vita e sa, quindi, come gli abitanti di Messina sono fatti.
Chi conosce, infatti, i messinesi sa che mai essi si ribelleranno ai politici di turno, qualunque sia il loro colore politico e che, quindi, davanti al Ponte sullo Stretto – che molti di loro sanno che è un vero scempio ambientale, paesaggistico, etico-sociale – si deve solo tacere, non perché manchi loro il coraggio, ma perché la storia li ha educati alla rassegnazione.
Se andiamo indietro nella storia, infatti, vediamo che Messina è una città che ha gridato una volta, nel Seicento, contro il potere di Madrid. Quel grido fu, però, soffocato con violenza e da allora rimase come un’eco spezzata.
Poi, dopo il trauma del terremoto del 1908, quando la terra tremò così forte da cancellare case, famiglie, ricordi, la città ha imparato a proprie spese a sopravvivere più che a combattere.
Oggi prevale la sfiducia: i giovani fuggono: fra il 2012 e il 2021, quasi 35. 000 giovani (18-39 anni) hanno lasciato Messina in cerca di lavoro e di una vita migliore altrove. Gli abitanti diminuiscono sempre di più: un report dell’Istat (gennaio-ottobre 2022) evidenzia una perdita di quasi 2 000 abitanti in soli 10 mesi, con una città in lenta, ma costante, discesa demografica. Oggi, pertanto, chi protesta emigra, chi resta si adatta.
Più che assenza di ribellione, è una forma di adattamento che diventa rassegnazione: un “saper sopportare”.
Così i messinesi hanno imparato a resistere in silenzio. La loro forza non sta nelle piazze affollate, ma nelle mani che rimettono insieme pietre e vita, ogni volta che il destino li colpisce. È questa una forza che assomiglia al mare dello Stretto: sempre in movimento, ma senza mai rovesciarsi davvero.
Eppure, dietro questa resilienza, resta una domanda sospesa: fino a quando dura la rassegnazione?
Forse i messinesi non si ribellano perché hanno già dato troppo, e perché la loro voce si è confusa con il rumore del mare che li accompagna da sempre ma sperano, nel loro animo, che il Ponte non si faccia mai.
In tal caso sarà la politica a essere obbligata a constatare il suo fallimento.