
Il progetto dell’impianto di liquefazione del gas naturale liquefatto, bocciato dal CTR regionale e lasciato decadere dal Ministero, sembra possa ritornare in scena sotto una veste diversa (o almeno, è quanto si dice nel mondo dell’ambientalismo): non più GNL tradizionale, ma liquefazione di biometano proveniente da Vasto. “Cambierebbe l’etichetta, insomma – commentano Roberto Malini e Lisetta Sperindei, portavoce del Comitato PESARO: NO GNL – ma la sostanza rimarrebbe la stessa. Si parla ancora di nuove infrastrutture ingombranti, di un processo duplicato e costoso, e soprattutto di un impianto che sorgerebbe a soli 120 metri dalle abitazioni, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di sicurezza e qualità della vita”.
Negli ultimi due anni l’Italia ha visto una vera e propria corsa agli impianti di biometano, sostenuta dai fondi del PNRR: 1,73 miliardi di euro da utilizzare entro il 2026. Un flusso di denaro che ha spinto il settore, ma che non ha risolto le contraddizioni di questa tecnologia. Il biometano viene presentato come energia “verde”, parte integrante della transizione ecologica. In realtà, molti esperti segnalano che la produzione ha costi elevati, resa energetica bassa e un impatto ambientale non trascurabile, a cominciare dalle emissioni prodotte nel ciclo di lavorazione e trasporto.
Il progetto pensato per Pesaro, se davvero venisse presentato al Ministero per una nuova Valutazione di Impatto Ambientale, complicherebbe ulteriormente le cose. Il biogas, ottenuto da scarti agricoli e rifiuti organici, deve essere raffinato per diventare biometano. Questo biometano verrebbe poi trasportato da Vasto a Pesaro per essere liquefatto, in un processo che richiede impianti aggiuntivi, consumi energetici significativi e nuove strutture logistiche. Una catena che appare assolutamente antieconomica, soprattutto se si considera che sul mercato internazionale il GNL è già disponibile in forma liquefatta, prodotto in grandi impianti con economie di scala che ne abbattono i costi unitari.
A rendere ancora più fragile la proposta è il rischio industriale. “Che si tratti di GNL o di biometano liquefatto – proseguono gli attivisti – la pericolosità rimane: perdite criogeniche, incendi, dispersioni. Elementi che il CTR aveva già giudicato incompatibili con un quartiere urbano così vicino. Senza contare i mezzi pesanti, i trasporti continui, il traffico aggiuntivo: un carico che graverebbe sulla città e sull’ambiente, senza un reale beneficio energetico o economico”.
I numeri parlano chiaro. In Italia sono attivi appena 115 impianti collegati alla rete, con una produzione di circa 570 milioni di metri cubi annui: un volume che copre a malapena un decimo dell’obiettivo fissato al 2030, cioè 5,7 miliardi di metri cubi. Sono impianti che, inoltre, sembrano non avere alcuna potenzialità sotto l’aspetto economico, perché offrono un prodotto molto al di sopra dei costi di mercato e non si vede come le relative tecnologie possano essere rese più efficienti. Nel frattempo, i costi crescono e le comunità locali protestano. Pesaro si ritroverebbe così a pagare un prezzo altissimo per ospitare un progetto che si inserisce in un contesto nazionale già zoppicante.
Il rischio, insomma, è che quella del biometano sia solo una “nuova scatola” per un progetto vecchio e già fallito. Una scatola costosa, ingombrante, che mette in pericolo l’ambiente e la salute di una comunità. La città ha già visto respingere la prima proposta, giudicata incompatibile con le regole di sicurezza. “Ripresentarla con un nuovo nome non cambia i problemi di fondo – concludono Malini e Sperindei – perché resta un’operazione insostenibile, economicamente fragile e ambientalmente rischiosa.