Il rapporto delle persone con il digitale: luci e ombre di un fenomeno sociale

L’Eurispes ha elaborato un report sulla trasformazione digitale in Italia, mettendo in luce le sfide e le opportunità che il Paese affronta in questo ambito. Il Programma per il Decennio Digitale 2030 dell’Unione europea, che mira a creare una società digitale equa e inclusiva, è al centro di questa trasformazione. Il report sottolinea la necessità di un approccio equilibrato alla digitalizzazione, che metta al centro la persona e favorisca un uso critico e consapevole delle tecnologie digitali. La sfida per l’Italia è trasformare l’accesso digitale in un’opportunità di crescita inclusiva e sostenibile per tutti i cittadini.

La trasformazione digitale che stiamo vivendo in Italia e in Europa cambia giorno dopo giorno il nostro modo di vivere, pensare e relazionarci. Per affrontare questa sfida, l’Unione europea ha messo a punto ‒ attraverso il Programma per il Decennio Digitale 2030 ‒ una strategia che punta a creare una società digitale giusta, inclusiva, sostenibile e resiliente. Gli obiettivi principali del programma si concentrano su quattro aree fondamentali: il capitale umano digitale, infrastrutture sicure e sostenibili, la digitalizzazione delle imprese e la modernizzazione dei servizi pubblici.

L’Italia ha fatto propri questi obiettivi attraverso strumenti come il PNRR, che prevede investimenti in connettività, 5G, digitalizzazione della Pubblica amministrazione, semplificazione dei servizi per i cittadini, e potenziamento delle competenze digitali, con particolare attenzione alle persone più fragili. Anche in àmbito educativo si sono avviate riforme per inserire l’educazione digitale nei percorsi scolastici.

Tuttavia, questa azione collettiva risulta ancora molto sbilanciata verso l’aspetto tecnologico, lasciando in secondo piano la protezione dell’individuo. Generazioni a confronto nell’era digitale

Le generazioni nate e cresciute prima del Duemila hanno vissuto in un contesto dove le relazioni avvenivano principalmente in spazi fisici, mentre la generazione successiva è cresciuta in un ambiente iperconnesso, dove la vita online è diventata una parte fondamentale della loro esistenza. Questa differenza non è solo tecnologica, ma anche cognitiva, simbolica e relazionale.

Le soluzioni tecnologiche introdotte e i relativi strumenti digitali hanno avuto un impatto significativo sulla vita umana; ma l’avanzamento tecnologico che ha segnato gli ultimi venti anni non è stato accompagnato da una crescita culturale, educativa, etica e istituzionale.

La Scuola e l’Università spesso rimangono bloccate in modelli tradizionali che non si connettono con la realtà iperconnessa degli studenti. In aggiunta, soluzioni didattiche innovative, come la didattica a distanza, sono state adottate più per necessità che per una chiara visione pedagogica.

La tecnologia ha anche cambiato il panorama pubblico. Le piattaforme digitali hanno aperto nuovi spazi di partecipazione, ma hanno anche introdotto rischi come la manipolazione dell’opinione, la polarizzazione ideologica, la diffusione di fake news e le interferenze algoritmiche nei processi democratici. In una società che corre veloce, il dialogo tra le generazioni può diventare il vero antidoto all’alienazione tecnologica. Sono cinque i fattori chiave in cui il digitale sta incidendo in maniera differenziale tra le generazioni.

La percezione del tempo e del cambiamento

Mentre le generazioni analogiche tendono a vedere il tempo in modo sequenziale, narrativo e riflessivo, le generazioni digitali vivono un’esperienza più frammentata, veloce e performativa.

I nativi digitali cresciuti con smartphone, social media e Internet sempre attivo, si trovano a vivere in un tempo che sembra accelerare continuamente, senza intermediari e super accessibile. In Italia, come riportato nell’“Atlante dell’infanzia a rischio 2023” di Save the Children, l’età di accesso allo smartphone continua ad abbassarsi, con un aumento rilevante del numero di bambini tra i 6 e i 10 anni che ne fanno uso quotidiano, attestandosi al 30,2% nel 2021-2022.

I giovani immersi in flussi digitali costanti:

–         diventano più abili nella simultaneità e nel multitasking, ma mostrano anche una crescente difficoltà a mantenere la concentrazione: uno studio dell’Università Cattolica di Milano (2022) ha rivelato che solo il 21% degli studenti universitari riesce a mantenere l’attenzione su un testo complesso per oltre 20 minuti senza interruzioni digitali;

–         mostrano una maggiore tensione verso l’immediatezza, faticando spesso nella progettazione a lungo termine (carriera, relazioni, educazione).

La costruzione dell’identità

Il passaggio da una società analogica a una digitale ha profondamente cambiato il modo in cui le persone costruiscono e rappresentano la propria identità. Oggi, la formazione dell’identità personale e sociale è fortemente influenzata dagli spazi digitali, in particolare dai social media, dai motori di ricerca e dalle app di messaggistica. L’esposizione quotidiana e costante alla comunicazione digitale cambia il modo in cui ci si percepisce, si proietta la propria immagine e si cerca riconoscimento. Il profilo personale su piattaforme come Instagram, TikTok, Snapchat o Facebook diventa una vera e propria “vetrina identitaria”, uno strumento attraverso cui la persona si definisce. Questo fenomeno, definito in letteratura come “identità frammentata”, implica una continua attività di editing e controllo dell’immagine, che può tradursi in una forma di iper-monitoraggio del sé.

Le relazioni sociali

I nativi digitali vivono in un sistema sociale dove la connessione è sempre possibile, e la prossimità fisica è spesso sostituita da interazioni virtuali costanti. Le relazioni non sono più necessariamente legate a un luogo specifico, ma si costruiscono e si mantengono attraverso chat, social network, videochiamate e app. La disponibilità continua dell’altro cambia radicalmente la natura dei legami.

Il fattore generazionale emerge con chiarezza nel Rapporto Italia 2025 dell’Eurispes: tra i giovani tra i 18 e i 24 anni, il 68,5% dichiara di sentire il bisogno di collegarsi frequentemente, il 53,3% si sente più libero di esprimersi attraverso i social network e il 50,9% afferma di sentirsi meno solo grazie all’uso di questi strumenti. Tuttavia, emergono anche segnali di disagio: il 49,7% percepisce una perdita di tempo legata all’utilizzo dei social, e il 43% riferisce una sensazione di estraneità rispetto al mondo reale. Con l’aumentare dell’età, l’intensità del rapporto con i social network tende a diminuire.

Gestire contemporaneamente tanti contatti può dar vita a relazioni “liquide” caratterizzate da instabilità, reversibilità e una bassa intensità affettiva. La trasformazione delle relazioni non riguarda solo i coetanei. Anche i rapporti familiari e intergenerazionali sono toccati dalla transizione digitale. I genitori si trovano esclusi dai contesti relazionali dei figli, creando uno scollamento comunicativo. Inoltre, la mancanza di spazi pubblici e di occasioni strutturate di incontro accentua la dipendenza dai social come unico ambiente relazionale.

La relazione con la tecnologia

Mentre gli adulti tendono a utilizzare la tecnologia in modo strumentale e mediato, i giovani vivono in una sorta di simbiosi continua, che influisce sulla loro identità, sulle relazioni e sul modo di pensare. Per colmare questa distanza, è fondamentale promuovere forme di educazione intergenerazionale al digitale, che valorizzino l’esperienza degli adulti e la familiarità tecnologica dei giovani, superando l’idea di un adattamento passivo e aprendo la strada a una vera co-costruzione del futuro digitale.

A tal riguardo, secondo il report Istat “Cittadini e ICT” (2023), in Italia il 93,5% dei giovani tra i 20 e i 34 anni accede regolarmente a Internet, mentre tra le persone di 65-74 anni la percentuale scende al 53,3%. Gli adulti, cresciuti in contesti sequenziali e logico-analitici, tendono a cercare soluzioni attraverso percorsi strutturati e lineari mentre i giovani, immersi in ambienti digitali ipertestuali e asincroni, sviluppano un pensiero più reticolare e situazionale, ma anche più disabituato alla profondità e alla continuità.

La gestione del tempo libero e della noia

In passato, la noia era percepita come una fase temporanea e come un’opportunità per stimolare la creatività o la riflessione. Oggi il sistema tecnologico fornisce risposte immediate alla noia, eliminandola più che trasformandola: l’algoritmo anticipa la noia proponendo contenuti personalizzati ma in questo modo limita l’esplorazione autonoma e il tempo dell’immaginazione.

Nel 2024 gli utenti di Internet hanno passato in media circa 6 ore e 40 minuti al giorno online, di cui oltre 2 ore e 20 minuti sui social media (DataReportal). La difficoltà di stare senza stimoli digitali porta a una vera e propria dipendenza comportamentale, a una diminuzione della soglia di attenzione e a un aumento dell’irritabilità nei momenti di inattività o quando ci si trova disconnessi forzatamente.

La società dell’iperconnessione: tempo, identità e fragilità nella cittadinanza digitale

In Italia il contesto demografico è caratterizzato da un’età media di 47,9 anni, tra le più elevate in Europa, con una popolazione di over 65 che rappresenta ormai quasi un quarto del totale. Questo dato anagrafico influisce direttamente sulla struttura della cittadinanza digitale, creando notevoli divari nell’adozione delle tecnologie tra le diverse fasce d’età, in particolare tra i giovani adulti e gli anziani.

La mancanza di una strategia ben definita ha portato a una digitalizzazione disarticolata, dove l’aumento dell’accesso alla Rete non ha corrisposto un miglioramento della qualità d’uso e della capacità di inclusione. Questa situazione emerge nel: l’87,7% della popolazione italiana (pari a 51,6 milioni di persone) nel 2024 risulta connessa a Internet, ma oltre 7 milioni di cittadini sono completamente esclusi dalla Rete, soprattutto tra gli anziani, nelle zone periferiche, nelle aree interne e tra le famiglie a basso reddito (Digital 2024 Global Overview Report).

La quasi totalità degli utenti italiani utilizza lo smartphone come dispositivo principale, mentre poco più della metà utilizza anche un computer fisso o portatile; sebbene questo modello garantisca un accesso di base, riduce notevolmente la possibilità di partecipare a processi digitali più avanzati, come l’accesso a servizi pubblici complessi come SPID o CIE, o la fruizione di contenuti professionali o formativi.

I giovani italiani trascorrono in media oltre 2 ore e 20 minuti al giorno sui social media, tuttavia, solo il 18% dichiara di utilizzare Internet per attività formative complesse o per partecipazione civica (Istat, “Cittadini e ICT”, 2023). Questo scarto tra consumo digitale e uso critico della tecnologia rivela una fragilità strutturale nelle competenze digitali. L’Italia ha già superato il traguardo della digitalizzazione di base. La vera sfida adesso è passare da un accesso puramente quantitativo a un utilizzo qualitativo.

Digitalizzazione e fragilità sociali

La diffusione capillare delle tecnologie digitali ha cambiato radicalmente il modo in cui interagiamo con la tecnologia e la società. Accanto alle nuove opportunità di connessione e automazione, emergono forme di vulnerabilità cognitive, psicologiche, sociali, culturali, tecniche e organizzative che possono influenzare il benessere delle persone, la coesione sociale e la stabilità dei nostri sistemi democratici. Gli àmbiti critici emersi riguardano capacità cognitive e psicologiche individuali; sociali, culturali ed economico-occupazionali; sicurezza e fiducia; tecniche e algoritmiche.

Criticità cognitive e psicologiche individuali

Le criticità cognitive e psicologiche dell’era digitale non vanno intese come effetti collaterali minori, ma come segnali profondi di un cambiamento antropologico in corso. Da questo scenario emergono almeno quattro direttrici principali di criticità: il sovraccarico informativo e la crisi dell’attenzione, la diffusione della FOMO (fear of missing out), la dipendenza digitale e la pressione performativa legata all’identità online.

Sovraccarico informativo

L’informazione online continua porta a quella che viene chiamata “fatica da social media”, un esaurimento che si manifesta con ansia, sensazione di sopraffazione e una diminuzione del benessere. Il sovraccarico informativo digitale è significativamente associato a livelli più elevati di ansia e burnout cognitivo. La distrazione sistematica è diventata la norma, portando a conseguenze che vanno dalla disattenzione alla fatica mentale cronica, fino a un aumento di ansia e depressione. Per contrastare questi effetti negativi, gli esperti consigliano strategie di benessere digitale, come limitare le notifiche, pianificare pause dalla tecnologia e riorganizzare gli spazi fisici per favorire la concentrazione, approcci che mirano a ripristinare la nostra capacità di attenzione profonda.

FOMO

La FOMO nasce dalla percezione, amplificata dai social network, che ci siano innumerevoli eventi, esperienze, opportunità o conversazioni a cui non stiamo partecipando, e che la nostra assenza possa comportare una perdita significativa di senso, relazioni o visibilità.

Le stories, i post “a scadenza”, le notifiche in tempo reale, creano una forma di vigilanza costante e una dipendenza cognitiva dall’ambiente digitale: in Italia oltre il 70% degli adolescenti tra i 14 e i 19 anni prova forme di ansia legate alla necessità di rimanere sempre connessi (dati Iss). Il risultato è una diminuzione della soddisfazione personale, un crescente senso di inadeguatezza e un’alterazione nella percezione del tempo e del valore delle esperienze. Dal punto di vista delle relazioni, la FOMO sta trasformando la comunicazione interpersonale, dove spesso la profondità viene sacrificata per la reattività. Sul piano clinico e pedagogico, affrontare la FOMO richiede strategie integrate che lavorino su aspetti identitari, motivazionali e sociali.

Pressione performativa e identità digitale

Nell’ecosistema digitale di oggi, l’identità personale non si costruisce più solo attraverso interazioni dirette, ma si negozia ogni giorno in uno spazio pubblico semi-permanente, influenzato da like, commenti, visualizzazioni e interazioni performative. Questa dinamica genera una continua spinta all’autorappresentazione, dove l’individuo si sente costretto a mostrare una versione ottimizzata, curata e spesso idealizzata di se stesso. Affrontare questa vulnerabilità richiede un ripensamento delle pratiche educative e comunicative, puntando a promuovere una cultura della consapevolezza digitale che valorizzi autenticità, diversità e benessere psicologico.

Dipendenza digitale

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 32% degli adolescenti italiani tra i 14 e i 19 anni mostra segnali di dipendenza da smartphone, manifestando crisi d’astinenza, irritabilità quando sono offline, isolamento sociale e un calo del rendimento scolastico. Ma il fenomeno non si limita ai giovani: anche gli adulti, spesso invisibili nelle statistiche, vivono forme silenziose di dipendenza legate al lavoro (e-mail, chat professionali), allo shopping compulsivo o alla fruizione continua di contenuti video.

L’OMS ha ufficialmente riconosciuto il “gaming disorder” come un disturbo comportamentale legato all’uso patologico dei videogiochi. Ma i confini tra videogioco, social network e contenuti interattivi sono diventati sempre più sfumati, e la logica della ricompensa immediata è presente in tutte le principali piattaforme digitali. Ma la vera insidiosità della dipendenza digitale è la sua normalizzazione sociale: poiché il comportamento compulsivo coinvolge tecnologie “necessarie” per la vita quotidiana, è spesso giustificato, sottovalutato o addirittura incoraggiato.

Criticità sociali e culturali

La trasformazione digitale in Italia non ha solo toccato gli aspetti individuali o tecnologici, ma ha avuto un impatto profondo anche sulle strutture sociali e culturali che governano la vita collettiva. Sono emerse anche criticità diffuse che riguardano la qualità del dibattito pubblico, la coesione sociale, l’equità culturale e la capacità del sistema educativo di adattarsi ai cambiamenti.

Polarizzazione e disinformazione

Tra le conseguenze più insidiose dell’ambiente digitale contemporaneo c’è la crescente esposizione della popolazione a fenomeni di polarizzazione ideologica e disinformazione sistemica. In particolare, il ruolo degli algoritmi di personalizzazione e delle logiche di “engagement” sta progressivamente sostituendo la tradizionale mediazione giornalistica con una disintermediazione radicale, che privilegia contenuti emotivamente coinvolgenti, in linea con le convinzioni pregresse dell’utente e capaci di generare reazioni immediate. Si chiamano echo chambers: spazi dove leggiamo e ascoltiamo solo chi la pensa come noi. Senza contraddittorio, il risultato è un progressivo restringimento dell’orizzonte informativo individuale.

L’esposizione costante a narrazioni parziali, distorte o volutamente ingannevoli mina la fiducia nelle Istituzioni, nei media tradizionali e nella scienza, creando un clima di sospetto, cinismo e confusione. La polarizzazione digitale non solo danneggia la qualità del dibattito pubblico, ma ha anche un impatto negativo sulla coesione sociale, accentuando le divisioni ideologiche, generazionali e culturali all’interno della società italiana.

Per questo, servono percorsi educativi di alfabetizzazione digitale fin dalla scuola, che insegnino ai più giovani – ma anche agli adulti – a orientarsi tra le informazioni, a porsi domande, a confrontarsi con le opinioni diverse dalle proprie.

Digital divide

Il digital divide descrive la disuguaglianza nell’accesso, nell’uso e nella padronanza delle tecnologie digitali. Non si tratta solo di avere una “connessione”, ma anche di possedere capacità critiche, consapevolezza nell’uso e partecipazione attiva nel mondo digitale.

In Italia, persistono notevoli disparità territoriali: le regioni del Sud, le aree interne e montane, e molte zone rurali continuano a soffrire di una copertura digitale limitata. Il divario non è solo una questione di geografia: secondo i dati Istat 2023, solo il 43,5% degli italiani over 65 utilizza Internet con regolarità.

Le difficoltà nell’interagire con piattaforme più complesse, nell’utilizzare identità digitali come SPID o CIE, e nell’accedere ai servizi pubblici online rappresentano veri e propri ostacoli alla piena cittadinanza digitale, rischiando di escludere una parte significativa della popolazione anziana dai processi di partecipazione e accesso ai diritti. L’Italia è tra i paesi con le maggiori disparità nell’adozione del digitale tra le diverse fasce di popolazione.

Obsolescenza delle competenze

L’obsolescenza delle competenze si verifica quando le conoscenze, le abilità e le qualifiche acquisite diventano rapidamente obsolete, non riuscendo più a soddisfare le nuove esigenze produttive, organizzative o tecnologiche. In Italia, questa problematica è particolarmente evidente in settori ad alta innovazione e ulteriormente complicato da fattori demografici e strutturali: i lavoratori over 45, spesso non hanno gli strumenti necessari per aggiornare le proprie competenze, mentre le piccole e medie imprese faticano a implementare programmi di reskilling efficaci. Secondo i dati raccolti da Ipsos Flair 2025 e dall’Istat, il 46% dei giovani, in particolare, percepisce l’innovazione tecnologica più come una minaccia che come un’opportunità, riconoscendo che la mancanza di formazione adeguata rappresenta un fattore di esclusione sociale e professionale.

La sfida principale per i prossimi anni sarà quella di creare un sistema di formazione continua, flessibile, in grado di accompagnare le persone per tutta la loro carriera lavorativa.

Criticità relative alla sicurezza e alla fiducia

Nel mondo iperconnesso, ogni clic, ogni messaggio, ogni acquisto online lascia una traccia. L’espansione delle tecnologie digitali ha pertanto creato una nuova dimensione di vulnerabilità, dove la sicurezza dei dati, la protezione dell’identità e la fiducia nelle infrastrutture digitali sono diventate questioni fondamentali per la società moderna.

Tuttavia, questa fiducia è oggi messa a dura prova da diverse problematiche emergenti. Da un lato, la perdita di controllo sulla propria privacy ha diminuito la percezione di sicurezza personale. Dall’altro, l’aumento degli attacchi informatici, delle frodi digitali e dei furti d’identità ha sollevato preoccupazioni reali sulla solidità delle infrastrutture pubbliche e private.

Cybersecurity

L’Italia risulta attualmente tra i paesi europei maggiormente colpiti da attacchi informatici. Solo nel 2023, gli incidenti cyber di grave entità sono aumentati di oltre il 50% rispetto all’anno precedente, con impatti significativi in settori critici quali sanità, Pubblica amministrazione, istruzione ed energia. Gli attacchi non provengono più soltanto dalla criminalità informatica tradizionale, ma si configurano sempre più spesso come strumenti di confronto e destabilizzazione in contesti di tensione geopolitica che fanno del cyberspazio un nuovo terreno di scontro.

La mancanza di una cultura diffusa della sicurezza informatica rappresenta un problema serio. Molti utenti, anche quelli professionisti, non seguono nemmeno le pratiche fondamentali per proteggere i propri dati, come l’uso di password forti, aggiornamenti regolari e l’autenticazione a due fattori. La cyberinsicurezza non è più solo una questione tecnica per esperti, ma un tema di rilevanza pubblica che richiede un approccio integrato e multilivello.

Perdita della privacy

Tra tutte le trasformazioni che il digitale ha portato nelle nostre vite, la perdita della privacy è forse quella più silenziosa, ma anche più profonda. Dietro ogni app, social o sito si muove un mondo invisibile fatto di algoritmi, tracciamenti e profilazioni sempre più avanzate. Il consenso che diamo è spesso solo formale, non davvero consapevole.

Difendere la privacy, oggi, non è una questione da esperti informatici. È qualcosa che riguarda il nostro modo di essere liberi. Da una parte, è urgente educare le persone – soprattutto i più giovani – a capire come funzionano le piattaforme, a leggere le condizioni, a scegliere consapevolmente. Dall’altra, serve un impegno forte da parte delle Istituzioni europee per garantire regole chiare, e trasparenza da chi gestisce i nostri dati.

Criticità tecniche e algoritmiche

L’indagine Vivere (dis)connessi: cittadini e tecnologie in una società che cambia presente nel Rapporto Italia 2024 dell’Eurispes rileva un atteggiamento verso l’IA complessivamente prudente: solo il 20,5% degli italiani la considera un’opportunità, e appena il 7,2% la vede come una soluzione a moltissimi problemi. Prevalgono una richiesta di controllo e una visione critica, mentre la frattura generazionale è netta: tra i 18-24enni, il 44,8% considera l’IA un’opportunità e il 16,4% una soluzione a molti problemi, mentre tra gli over 64, solo il 10,2% è favorevole, mentre prevalgono la paura (21,6% la considera un pericolo per l’umanità) e l’incertezza (34,6% non sa come definirla).

Il termine “opacità algoritmica” si riferisce all’incapacità, da parte degli utenti di comprendere appieno come un algoritmo arrivi a una certa decisione o raccomandazione. In molti casi, specialmente con l’uso di modelli di machine learning e deep learning, le logiche interne rimangono incomprensibili, persino per gli stessi sviluppatori. Questo solleva interrogativi importanti riguardo alla responsabilità, alla possibilità di contestazione e al rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

A livello europeo, la consapevolezza di questi rischi ha spinto alla creazione dell’Artificial Intelligence Act, un insieme di norme pensato per regolare l’uso dell’IA secondo il principio del “rischio proporzionato”. L’obiettivo è quello di stabilire obblighi di trasparenza, tracciabilità, valutazione d’impatto e supervisione per tutti i sistemi considerati ad alto rischio. Tuttavia, l’applicazione è ancora nelle fasi iniziali e richiederà investimenti significativi in competenze, standard tecnici e forme di educazione digitale diffusa.

Digital Decade 2030: asset strategici

Il Programma strategico per il Decennio Digitale 2030 guida l’Unione europea nel ridefinire le sue priorità in tema di transizione digitale. La vera novità del Programma è la sua architettura cooperativa: prevede un meccanismo annuale di collaborazione tra la Commissione Europea e gli Stati membri, basato sulla redazione dei Digital Decade Country Reports, sulla formulazione di raccomandazioni specifiche per ogni paese e sulla definizione di percorsi strategici nazionali che siano in linea con gli obiettivi europei. L’obiettivo del Programma non è solo quello di promuovere l’innovazione tecnologica, ma di guidare una trasformazione digitale che sia inclusiva, sostenibile e democratica.

Capitale umano

Il primo asse strategico del Programma per il Decennio Digitale 2030 parte dal presupposto che non ci può essere vera trasformazione digitale se le persone non vengono messe al centro.

Entro il 2030, almeno l’80% della popolazione adulta dell’Unione dovrà avere competenze digitali di base. Secondo i dati Eurostat aggiornati al 2023, attualmente solo circa il 54% degli adulti raggiunge questa soglia, con notevoli disparità tra Stati membri e tra aree urbane e rurali.

Potenziarne il capitale umano digitale non significa solo insegnare a usare un computer o navigare su Internet ma preparare le persone a vivere in un mondo dove il digitale non è più un’opzione, ma una dimensione quotidiana.

Entro il 2030 avremo bisogno di almeno 20 milioni di specialisti ICT per sostenere lo sviluppo nei settori più innovativi. Oggi, però, siamo ancora fermi a circa 9 milioni: l’offerta formativa non riesce a stare al passo con l’evoluzione delle tecnologie. A ciò si aggiunge la rappresentanza di genere nelle professioni digitali: oggi, meno del 20% degli specialisti ICT in Europa sono donne. Il Programma Digital Decade stabilisce esplicitamente l’obiettivo di raggiungere la parità di genere nel settore tecnologico come parte fondamentale della strategia complessiva, prevedendo misure incentivanti e la rimozione delle barriere culturali e sistemiche che ostacolano l’accesso delle donne ai percorsi STEM.

Focus sulla situazione italiana

Secondo il Rapporto Eurobarometro 2025, solo il 46% degli italiani tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base, un dato inferiore alla media europea (54%) e ben lontano dall’obiettivo dell’80% fissato dalla Commissione Ue per il 2030. In particolare, la percentuale scende sotto il 30% tra la popolazione over 60, con picchi di marginalità nelle aree interne, rurali e nel Mezzogiorno.

Il divario generazionale è una componente strutturale di questo fenomeno: mentre oltre il 70% degli under 30 utilizza quotidianamente strumenti digitali, tra gli over 65 la percentuale crolla drasticamente.

Dal punto di vista territoriale, si nota una netta divisione tra il Nord e il Sud del Paese, un fenomeno strettamente legato all’accessibilità delle infrastrutture, alla qualità del sistema scolastico e alla disponibilità di servizi pubblici e formativi digitali. Un altro aspetto del divario riguarda il livello di istruzione: solo il 26% delle persone con licenza media o elementare possiede competenze digitali adeguate, rispetto al 68% dei laureati (Istat, 2023).

Il gender gap resta marcato: solo il 15,7% degli specialisti ICT in Italia è di sesso femminile, contro una media Ue del 19,4% (Istat 2023). La carenza di specialisti ICT è particolarmente grave nel settore pubblico, che fatica a reclutare personale adeguato a gestire piattaforme complesse e infrastrutture digitali.

Infrastrutture digitali sicure e sostenibili

Il secondo asse strategico del Programma per il Decennio Digitale 2030 si concentra sullo sviluppo, il potenziamento e la diffusione di infrastrutture digitali che siano sicure, performanti e sostenibili. Entro il 2030, ogni famiglia europea dovrà avere accesso a una connessione a banda ultra-larga (gigabit), e tutte le aree popolate dovranno essere coperte da una rete mobile 5G ad alte prestazioni.

Oggi, secondo il DESI 2022 della Commissione Europea, solo il 70% delle abitazioni europee è raggiunto da una connessione a 1 Gbps.

Il Programma mette in luce come la qualità dell’infrastruttura digitale sia strettamente legata alla coesione territoriale, alla riduzione delle disuguaglianze e alla resilienza del sistema, specialmente in settori cruciali come l’istruzione, la salute, la giustizia e la Pubblica amministrazione. Oltre a potenziare la connettività, l’Europa punta anche alla produzione di tecnologie strategiche, come i semiconduttori, la microelettronica e i sistemi di calcolo ad alte prestazioni (HPC). Il Programma sottolinea poi l’importanza di garantire la cybersicurezza delle reti, dei dati e dei dispositivi connessi, introducendo criteri minimi comuni e sistemi di certificazione per la sicurezza delle infrastrutture critiche.

Infine, l’Unione europea dedica particolare attenzione alla sostenibilità ambientale delle infrastrutture digitali, incoraggiando l’adozione di tecnologie a basso impatto energetico, la riduzione dell’impronta di carbonio dei data center e la transizione verso reti intelligenti che permettano una gestione efficiente e flessibile delle risorse.

Focus sulla situazione italiana

L’Italia ha registrato un incremento rilevante delle risorse dedicate alla trasformazione digitale, trainato in gran parte dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e da iniziative settoriali come il Piano Transizione 4.0–5.0. Tuttavia, permangono criticità di coordinamento, continuità e impatto sistemico, soprattutto sul versante della spesa privata e dell’attrazione di investimenti esteri.

Secondo il MEF (“PNRR. Italia Domani – Documento di sintesi”, 2023), il PNRR ha destinato circa 49,8 miliardi di euro (pari al 27% del totale del piano) a interventi direttamente o indirettamente connessi alla digitalizzazione. Le principali voci riguardano: digitalizzazione della PA (6,74 miliardi), innovazione nelle imprese e nella manifattura (13,38 miliardi), infrastrutture digitali e connettività (6,31 miliardi), scuola e università digitale (7,6 miliardi), sanità digitale (7,4 miliardi).

Tuttavia, nel primo trimestre del 2025, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, solo il 47% dei fondi digitali previsti è stato impegnato in modo significativo. Le difficoltà sono legate a una carenza di capacità progettuale da parte di molti Enti locali, alla mancanza di personale tecnico per gestire le gare e alla frammentazione degli interventi.

Per quanto riguarda le infrastrutture digitali e connettività. La velocità media della rete mobile in Italia è di 46,03 Mbps, con un incremento del 17,3% rispetto all’anno precedente, mentre la rete fissa registra una media di 71,4 Mbps, in crescita del 18,5% (Fonte: We Are Social & Meltwater, Digital 2024 – Datareportal). Tuttavia, questi progressi non sono distribuiti in modo uniforme. La copertura in fibra ottica FTTH (Fiber To The Home) è ancora limitata al 22% delle abitazioni, un dato decisamente inferiore alla media europea e molto lontano dai valori di riferimento dei Paesi con una digitalizzazione avanzata: in Francia la copertura supera il 66%, in Spagna l’88% (Fonte: DESI 2023 – Digital Economy and Society Index, Commissione Europea). Le disuguaglianze infrastrutturali persistono e si accentuano tra Nord e Sud, tra grandi centri e aree interne, rappresentando uno dei principali ostacoli alla piena effettività della trasformazione digitale.

Infine per quanto riguarda il settore privato, secondo Eurostat le aziende italiane investono in media solo lo 0,9% del loro fatturato nella digitalizzazione, rispetto all’1,5% della media Ue e al 2,4% della Germania. Questo divario è particolarmente evidente tra le PMI, che costituiscono oltre il 90% del sistema produttivo italiano. A questo proposito, il nuovo Piano Transizione 5.0, entrato in vigore nel 2024, prevede un sistema di crediti d’imposta per gli investimenti in tecnologie digitali e green.

Trasformazione digitale delle imprese

Il terzo asse strategico delineato dal Programma per il Decennio Digitale 2030 si concentra sulla trasformazione digitale del sistema imprenditoriale europeo. La dimensione industriale e produttiva della transizione digitale è un pilastro cruciale per rafforzare l’autonomia tecnologica dell’Europa e migliorare la sua capacità di competere in un contesto globale sempre più complesso.

La Commissione Europea ha fissato un obiettivo chiaro: entro il 2030, almeno il 75% delle imprese europee dovrà adottare tecnologie digitali avanzate, come il cloud computing, l’IA e l’analisi dei big data.

Tuttavia, la situazione attuale mostra ancora forti disomogeneità: secondo Eurostat (2023), solo il 45% delle imprese europee utilizza servizi cloud, mentre l’intelligenza artificiale è impiegata da meno dell’8% delle aziende. L’asimmetria digitale tra aziende di diverse dimensioni e posizioni geografiche potrebbe creare una doppia frattura competitiva: tra grandi e piccole imprese, e tra aree con diverse densità infrastrutturale. L’Europa mette a disposizione strumenti finanziari mirati, che si integrano con iniziative come il Piano d’azione per le PMI, la strategia europea sull’intelligenza artificiale, l’European Innovation Council e i fondi del Next Generation EU. Il Programma promuove inoltre la sinergia tra digitalizzazione e transizione verde.

Focus sulla situazione italiana

Secondo Eurobarometro 2025, solo il 58% delle PMI italiane ha raggiunto un livello base di intensità digitale, rispetto al 69% della media Ue. Il divario non riguarda solo il numero di imprese digitalizzate, ma anche la qualità e la maturità delle tecnologie adottate. Ad esempio, solo il 6% delle aziende italiane utilizza l’intelligenza artificiale, rispetto al 10% della media Ue, mentre il cloud computing è adottato dal 22% delle imprese italiane, contro una media Ue del 34%.

Tra le principali barriere per le nostre imprese si evidenzia: la mancanza di competenze digitali interne; la scarsa disponibilità di consulenza; la difficoltà di accesso al credito e agli incentivi pubblici in forma semplificata; modelli gestionali tradizionali. Il divario territoriale continua a essere significativo: nelle regioni del Nord, le imprese mostrano un livello medio di digitalizzazione superiore rispetto a quelle del Centro-Sud. Guardando ai vari settori, le imprese manifatturiere risultano mediamente più digitalizzate rispetto a quelle dei servizi tradizionali, mentre le filiere agroalimentari, turistiche e artigianali, in generale, sono meno digitalizzate.

Nonostante queste sfide, il contesto italiano mostra anche segnali positivi: nel triennio 2020–2023, grazie agli incentivi del Piano Transizione 4.0, si è registrato un aumento del 12% negli investimenti digitali nel manifatturiero.

Digitalizzazione dei servizi pubblici

Il quarto asse strategico del Programma per il Decennio Digitale 2030 si concentra sulla trasformazione digitale del settore pubblico e sul rafforzamento della cittadinanza digitale. La Commissione Europea si è posta l’obiettivo per il 2030 di rendere tutti i principali servizi pubblici pienamente accessibili online, in modo sicuro, semplice, interoperabile e inclusivo.

Al centro di questo progetto c’è anche lo sviluppo di una identità digitale europea (eID), pensata per permettere a ogni cittadino dell’Unione di accedere ai servizi pubblici ovunque in Europa. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. Secondo i dati del DESI 2022, il 75% dei cittadini europei utilizza occasionalmente i servizi pubblici digitali, ma solo poco più della metà (57%) li trova veramente semplici da usare. E meno della metà degli Stati membri garantisce oggi una vera interoperabilità tra le piattaforme pubbliche. Molti cittadini, pur avendo accesso formale alla Rete, non hanno le competenze necessarie per navigare su piattaforme complesse. Per questo motivo, il Programma per il Decennio Digitale sottolinea l’importanza di accompagnare la digitalizzazione dei servizi pubblici con azioni strutturali di alfabetizzazione digitale, con particolare attenzione alle fasce più vulnerabili.

Focus sulla situazione italiana

Secondo il Rapporto Eurobarometro 2025, solo il 43% dei cittadini italiani ha interagito con la Pubblica amministrazione attraverso servizi digitali nell’ultimo anno, rispetto a una media Ue del 61%. Questo dato non riflette tanto una mancanza di infrastrutture, quanto una serie di fattori culturali, tecnici e organizzativi che limitano l’uso completo dei servizi digitali, anche quando sono disponibili. Negli ultimi anni, l’Italia ha fatto progressi significativi adottando strumenti chiave come lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), la CIE (Carta d’Identità Elettronica), l’App IO, pagoPA e il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE). Secondo AGID (2024), oltre 36 milioni di cittadini hanno credenziali SPID attive, ma il tasso di utilizzo è irregolare: solo il 37% dei titolari utilizza SPID regolarmente per accedere ai servizi della PA.

Una delle criticità principali è la scarsa interoperabilità dei sistemi informativi pubblici. Dal punto di vista degli utenti, il problema principale non è tanto l’accesso, quanto piuttosto l’efficacia percepita dei servizi digitali. Secondo l’Istat (2023), il 48% degli italiani ha difficoltà a utilizzare almeno un servizio digitale pubblico, citando come principali ostacoli la complessità delle procedure, la scarsa chiarezza delle interfacce e l’assenza di supporto umano in caso di problemi.

Dal punto di vista normativo, il Dipartimento per la Trasformazione Digitale, nell’ambito del PNRR, ha definito una Strategia Nazionale per la Digitalizzazione della PA, con investimenti superiori a 6 miliardi di euro, ma la sua implementazione è ancora in corso.

Oltre la connettività: la persona al centro della transizione digitale

Prime iniziative per la tutela dell’individuo

A livello istituzionale, assistiamo alla creazione di osservatori tematici, linee guida parlamentari e proposte normative che cercano di affrontare questioni critiche come l’uso degli smartphone tra i minori, la protezione della privacy, la sicurezza informatica e la cittadinanza digitale. Sul fronte educativo, stanno emergendo esperienze nelle scuole e nelle Università che integrano nei programmi di studio corsi di alfabetizzazione critica al digitale. Inoltre, nel campo della ricerca, si stanno moltiplicando i centri interdisciplinari che studiano l’impatto delle tecnologie sulla sfera psicologica, affettiva e relazionale.

Indagine conoscitiva del Senato della Repubblica

Il Documento conclusivo di indagine conoscitiva del Senato è stato presentato e approvato nel 2021 dalla 7ᵃ Commissione (Istruzione, beni culturali, ricerca, sport e spettacolo) con l’obiettivo di fornire una risposta istituzionale organica e multilivello agli effetti negativi dell’iperconnessione digitale, in particolare tra i giovani. Tra le misure proposte si inseriscono: l’introduzione di limiti all’uso degli smartphone in classe, tranne per scopi didattici autorizzati; l’installazione obbligatoria di controlli parentali predefiniti su tutti i dispositivi per minori; verifica dell’identità rafforzata per l’iscrizione ai social network; educazione digitale integrata nei programmi scolastici; campagna nazionale permanente di sensibilizzazione; tutela della lettura su carta e della scrittura a mano.

L’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO)

L’EDMO gioca un ruolo chiave e sistemico nella lotta contro la disinformazione online attraverso un’azione multilivello che combina ricerca, fact-checking, analisi dei dati e alfabetizzazione mediatica e digitale. EDMO adotta un approccio basato su evidenze, supportato da attività sistematiche di mappatura, valutazione e condivisione di buone pratiche in materia di media literacy. La sua strategia prende forma grazie a una rete di hub attivi a livello nazionale ed europeo, che coordinano sul territorio attività educative, di ricerca e sensibilizzazione.

Verso la necessità della digital detox

In Italia – come in altri paesi europei – sta crescendo l’attenzione verso il digital detox come pratica strutturata e benefica. Un esempio molto concreto è rappresentato da “Logout Livenow”, una realtà italiana che organizza vere e proprie esperienze di disconnessione.

La disconnessione consapevole sta conquistando anche altri àmbiti, come il turismo lento, spirituale o naturalistico e finanche il mondo delle imprese e della scuola. I dati confermano che questa strada è promettente. Studi internazionali dimostrano che anche pochi giorni lontani dai social migliorano l’umore, riducono lo stress e favoriscono un sonno più profondo. Una ricerca dell’Università di Bath ha rilevato che il 60% di chi partecipa a programmi di digital detox percepisce un netto miglioramento nel proprio benessere relazionale e mentale.

Il digital detox è una nuova frontiera della salute pubblica e del benessere, che merita attenzione da parte delle Istituzioni. In questo senso, si evidenzia l’importanza di promuovere campagne informative, programmi educativi e incentivi per favorire una cultura della disconnessione consapevole.