
Prologo – Il suono di una bolla che scoppia All’alba del nuovo millennio, Wall Street somigliava più a Las Vegas che a un mercato finanziario. Ogni clic era un dollaro. Ogni startup con “.com” nel nome era una promessa di gloria. Bastava un’idea vaga, una slide confusa e un paio di venture capitalist con troppa liquidità e troppo poco sonno.
Poi, un giorno, il sipario cadde.
E con lui, trilioni di dollari evaporarono in una nube di codice HTML, stock option e sogni infranti.
Quella che passò alla storia come la bolla delle dot-com non fu solo un crollo di mercato. Fu l’equivalente finanziario di un rave nel deserto: euforia collettiva, zero regole, e il risveglio con il portafoglio vuoto.
Fu il momento in cui l’umanità scoprì che sì, Internet avrebbe cambiato il mondo…ma non nel modo in cui pensavano i trader del Nasdaq.
E oggi? Con l’Intelligenza Artificiale al centro di una nuova corsa all’oro digitale, il déjà-vu è troppo forte per essere ignorato.
Capitolo I – Il codice della nuova economia Per capire come ci siamo arrivati, bisogna tornare agli anni ’90.
Una “tempesta perfetta” di fattori – innovazione tecnologica, tassi d’interesse ridicoli e FOMO da manuale – stava per travolgere ogni logica finanziaria.
La miccia? Un browser. Nel 1995, Netscape Communications portò in Borsa il suo browser Navigator. Prezzo d’offerta: 28 dollari. Chiusura del primo giorno: 58,25.
Boom.
Fu il “momento Netscape”. E per molti fu come vedere una macchina del tempo in azione: il futuro era lì, accessibile a tutti, e i soldi sembravano crescere insieme alle righe di codice.
In pochi mesi, Internet passò da curiosità accademica a religione laica.
Il mondo, improvvisamente, era popolato da visionari con camicia hawaiana e venture capitalist con il check facile.
Non importava se l’azienda perdeva soldi a palate. L’importante era crescere. Anzi: scalare.
Il mantra era semplice: “Non serve un modello di business, serve una IPO.”
Il carburante dell’euforia: quando i soldi costavano niente Ogni bolla ha bisogno di una scintilla. Ma per diventare un incendio serve carburante. E negli anni ’90, la Federal Reserve sembrava un benzinaio aperto h24, con i tassi d’interesse in svendita.
Dopo la crisi delle Savings & Loan e la breve recessione di inizio decennio, Alan Greenspan e soci tagliarono i tassi fino a un placido 2,92% nel dicembre 1992. Era come versare champagne nei bicchieri dell’intero mercato. Risultato? Il denaro diventò così economico che prendere in prestito per scommettere su un sogno digitale sembrava più saggio che investire in un’impresa concreta.
Nel frattempo, l’economia statunitense cresceva da record: un’espansione ininterrotta lunga dieci anni (dal 1991 al 2001), la più lunga mai registrata. Gli investitori, affamati di rendimento in un mondo di bond sottotono, si riversarono sul mercato azionario. E come se non bastasse, nel 1997 arrivò pure il bonus fiscale: le imposte sulle plusvalenze scesero dal 28% al 20%. Il messaggio era chiaro: scommettere conviene.
Il popolo del Nasdaq: day trader, guru improvvisati e la fine della “vecchia economia”
Mentre il capitale fluiva come prosecco a Capodanno, avvenne un altro fenomeno: il mercato si riempì di gente. Tanta gente.
Nel 1980, meno del 10% degli americani possedeva azioni. Nel 1995, erano più della metà. Chiunque avesse un modem e duecento dollari da parte poteva improvvisarsi investitore.
Fu l’era del trading casalingo, degli spot su CNBC con giovani in tuta che investivano dal salotto di casa. Bastava aprire un conto online, cliccare su “compra” e sentirsi Warren Buffett.
In parallelo, nacque il mito della New Economy: un’ideologia tanto affascinante quanto pericolosa.
Secondo i suoi apostoli, Internet aveva riscritto tutte le regole. Il concetto stesso di utile diventava roba da dinosauri. “Non serve profitto, serve traffico.” “Non contano i margini, contano i clic.”
In quel clima, anche la startup più sconclusionata poteva raccogliere milioni con una slide e una mascotte simpatica (vero, Pets.com?). Bastava crederci. E in effetti ci credevano tutti: investitori, analisti, giornalisti. L’importante era non essere l’ultimo a restare seduto quando la musica si fermava.
La logica va in pensione: benvenuti nell’euforia irrazionale Con gli occhi a forma di dollaro e il dito sempre pronto sul mouse, il mercato azionario entrò in una spirale. Ogni aumento dei prezzi veniva interpretato come conferma che “sì, questa volta è diverso”. Ogni IPO era una festa. Ogni correzione, un’opportunità d’acquisto.
Quello che si innescò fu un classico meccanismo da “bolla scolastica”: il prezzo sale ? gli investitori si eccitano ? comprano ancora ? il prezzo sale. E così via, fino alla luna.
Alan Greenspan, in un raro momento di lucidità lessicale, la definì “euforia irrazionale” già nel 1996. Ma nessuno lo ascoltò. Anzi, il Nasdaq raddoppiò nei tre anni successivi….
Continua
Alessio Vannucco, consulente finanziario indipendente, collaboratore Aduc