Cuore, sempre meno donne negli studi clinici: appena il 30%. Rischio di infarto più alto del 20%

Meno del 30% delle donne partecipa alle sperimentazioni cliniche in tutto il mondo sulle malattie cardiovascolari. È quanto emerge da uno studio di recente pubblicato su Heart, rivista del gruppo del British Medical Journal, che ha esaminato oltre 170 studi, mettendo in evidenza come la presenza delle donne in trial clinici in ambito cardiologico, sia nettamente inferiore a quella degli uomini. Una clamorosa scarsità di partecipanti femminili che è peggiorata negli anni: passando dal 40% tra il 2010 e il 2017, a meno del 30% di oggi. Ciò rappresenta un serio problema perché l’insufficienza di dati ha un grave impatto sulla cura delle malattie cardiovascolari femminili, e di conseguenza sull’incidenza e sul tasso di sopravvivenza. 

L’allarme arriva dalla Fondazione “Il Cuore Siamo Noi” della Società Italiana di Cardiologia (SIC) che ha promosso, oggi in Senato, un convegno interamente dedicato al cuore delle donne e alle differenze di genere nel rischio cardiovascolare. “Il fatto che le donne siano sottorappresentate negli studi clinici in ambito cardiologico ha conseguenze importanti sulla salute del cuore perché può portare a terapie che non consentono una cura “sartoriale” delle patologie cardiovascolari nel genere femminile, in quanto i trial non tengono adeguatamente conto delle differenze biologiche tra i due sessi con risultati che possono incidere sulla mortalità e sul rischio di eventi cardiovascolari. Infatti, ignorare la specificità delle donne negli studi clinici comporta un non adeguato approccio clinico specifico. Tutto questo perché i farmaci comunemente utilizzati per le principali malattie cardiovascolari, a partire dall’infarto, sono testati prevalentemente sull’uomo e, pertanto, non adeguati alle caratteristiche fisiologiche esclusive della donna. Ciò contribuisce a un aumento degli effetti collaterali e a una minore aderenza terapeutica con rischio più alto del 20% di infarto miocardico”, sottolinea Francesco Barillà, Presidente della Fondazione “Il Cuore Siamo Noi” della Società Italiana di Cardiologia.

Molteplici fattori contribuiscono alla scarsa partecipazione femminile nei trial. Ciò dipende, tra gli altri, dalla mancanza di criteri di arruolamento specifici, legati anche alla minore presenza di donne alla guida degli studi clinici, dai timori di potenziali effetti negativi dei farmaci su gravidanza e menopausa, nonché da barriere socioeconomiche e culturali, e dalla percezione che le donne siano meno a rischio di malattie cardiache. “Eppure i numeri parlano chiaro. Secondo i dati della Società Europea di Cardiologia, non solo le malattie cardiovascolari rappresentano oggi la principale causa di morte tra le donne, ma il tasso di mortalità è decisamente più alto, con il 51% dei decessi nel genere femminile, contro il 42% nel genere maschile – afferma Pasquale Perrone Filardi, Presidente della Società Italiana di Cardiologia –. Questo dato si conferma anche in Italia dove le malattie cardiovascolari sono state la causa di oltre 217 mila morti, di cui circa 122 mila tra le donne e 95 mila tra gli uomini”.

 “Le malattie cardiovascolari continuano a essere considerate un problema soprattutto “maschile”. Questo ha portato a un forte squilibrio nella ricerca, prevenzione, diagnosi e cura. Le donne oggi vengono ancora trattate in misura minore con farmaci specifici e ricevono tardivamente i necessari trattamenti. Inoltre, sono meno sottoposte sia a screening di prevenzione sia a terapie riabilitative”, spiega Susanna Sciomer, Professoressa associata di Cardiologia dell’Università “Sapienza” di Roma. 

Molti sono gli aspetti da considerare nel gender gap quando si parla di malattie cardiovascolari. Infatti, anche le manifestazioni delle varie patologie sono diverse nei due sessi. Le donne, ad esempio, in caso di infarto, spesso non presentano dolore al petto irradiato, bensì denunciano sintomi come dolore epigastrico, dispnea, affaticamento, sudorazione fredda e palpitazioni, sintomi che possono indurre a sottovalutare il quadro clinico.

Ma c’è di più: anche i fattori di rischio cardiovascolari come ad esempio, fumo, diabete e ipertensione, hanno un impatto diverso sul genere femminile. “Una fumatrice può avere un rischio fino a 5 volte maggiore di sviluppare una patologia aterosclerotica, rispetto a un uomo, e nelle donne il diabete, malattia più frequente che negli uomini, può comportare un rischio raddoppiato di eventi cardiovascolari. Inoltre, i fattori di rischio codificati e comuni a maschi e femmine si potenziano nelle donne dopo la menopausa. Per esempio, l’ipertensione arteriosa è dominio dell’uomo prima dei 50 anni. In seguito, l’incidenza è più alta nelle donne – puntualizza Sabina Gallina, Ordinaria di Cardiologia dell’Università di Chieti –. Vi sono poi fattori di rischio sesso-specifici, strettamente legati all’aspetto riproduttivo femminile. Tra questi, il mancato ritorno al peso prima della gravidanza nell’arco di un anno, il parto pretermine, l’ipertensione, il diabete gestazionale, il menarca prematuro e la sindrome dell’ovaio policistico, fino ad arrivare ai trattamenti radioterapici relativi al tumore della mammella”.

Tutto questo rende necessario un approccio specifico e personalizzato per la salute cardiovascolare femminile e la diffusione di una maggiore consapevolezza sull’unicità biologica e ormonale della donna e l’impegno nella costruzione di un’attività di ricerca e di una medicina sempre più attenta alle specificità del genere femminile”, conclude Roberta Montisci, Professoressa associata di Cardiologia dell’Università di Cagliari.